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What part will your country play in World War III?

By Larry Romanoff

The true origins of the two World Wars have been deleted from all our history books and replaced with mythology. Neither War was started (or desired) by Germany, but both at the instigation of a group of European Zionist Jews with the stated intent of the total destruction of Germany. The documentation is overwhelming and the evidence undeniable. (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9) (10) (11)

That history is being repeated today in a mass grooming of the Western world’s people (especially Americans) in preparation for World War IIIwhich I believe is now imminent

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FREE JULIAN ASSANGE

Tuesday, March 19, 2019

IT -- I 70 ANNI DELLA NATO: DI GUERRA IN GUERRA



I 70 ANNI DELLA NATO:

DI GUERRA IN GUERRA

DOCUMENTAZIONE PRESENTATA DAL CNGNN AL CONVEGNO INTERNAZIONALE SUL 70° DELLA NATO, FIRENZE, 7 APRILE 2O19

INDICE

1. La NATO nasce dalla Bomba
2. Nel dopo-guerra fredda la NATO si rinnova 
3. La NATO demolisce lo Stato Jugoslavo
4.  La NATO si espande ad Est verso la Russia
5. USA e NATO attaccano l’Afghanistan e l’Iraq
6. La NATO demolisce lo Stato libico 
7. La guerra USA/NATO per demolire la Siria
8.  Israele ed emiri nella NATO
9. La regia USA/NATO nel colpo di stato in Ucraina 
10. L’escalation USA/NATO in Europa
11.  La  portaerei Italia sul fronte di guerra 
12. USA E NATO bocciano il Trattato ONU e schierano in Europa nuove armi nucleari
13. USA e NATO affossano il Trattato INF
14. L’Impero Americano d’Occidente gioca la carta dellla guerra
15. Il sistema bellico planetario USA/NATO
16. Per uscire dal sistema di guerra uscire dalla NATO

1. La NATO nasce dalla Bomba

Gli eventi che preparano la nascita della NATO iniziano con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, effettuato dagli Stati Uniti nell’agosto 1945 non per sconfiggere il Giappone, ormai allo stremo, ma per uscire dalla Seconda guerra mondiale con il massimo vantaggio possibile soprattutto sull’Unione Sovietica. Ciò è reso possibile dal fatto che, in quel momento, gli Stati Uniti sono gli unici a possedere l’arma nucleare.
Appena un mese dopo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, nel settembre 1945, il Pentagono già calcola che occorrerebbero circa 200 bombe nucleari contro un nemico delle dimensioni dell’URSS. Il 5 marzo 1946, il discorso di Winston Churchill sulla «cortina di ferro» apre ufficialmente la guerra fredda. Subito dopo, nel luglio 1946, gli USA effettuano i primi test nucleari nell’atollo di Bikini (Isole Marshall, Oceano Pacifico) per verificarne gli effetti su un gruppo di navi in disarmo e migliaia di cavie. Partecipano all’operazione oltre 40 mila militari e civili statunitensi, con oltre 250 navi, 150 aerei e 25 mila rilevatori di radiazioni.
Nel 1949 l’arsenale statunitense sale a circa 170 bombe nucleari. A questo punto gli Stati Uniti sono sicuri di poter avere, entro breve tempo, abbastanza bombe per attaccare l’Unione Sovietica. In quello stesso anno, però, fallisce il piano statunitense di conservare il monopolio delle armi nucleari. Il 29 agosto 1949, l’Unione Sovietica effettua la sua prima esplosione nucleare sperimentale. Alcuni mesi prima, il 4 aprile 1949, quando a Washington ormai sanno che anche l’Unione Sovietica sta per avere la Bomba e sta quindi per iniziare la corsa agli armamenti nucleari, gli Stati Uniti creano la NATO. L’Allenza sotto comando USA comprende durante la guerra fredda 16 paesi: Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Attraverso questa alleanza, gli Stati Uniti mantengono il loro dominio sugli alleati europei, usando l’Europa come prima linea contro l’Unione Sovietica.
Sei anni dopo la NATO, il 14 maggio 1955,  nasce il Patto di Varsavia, comprendente Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Romania, Ungheria, Albania (questa dal 1955 al 1968).
Mentre inizia il confronto nucleare tra USA e URSS, Gran Bretagna e Francia, entrambe membri della NATO, si muovono per dotarsi anch’esse di armi nucleari. La prima a riuscirvi è la Gran Bretagna, che nel 1952 effettua in Australia una esplosione sperimentale. Il vantaggio della NATO aumenta ulteriormente quando, il 1° novembre dello  stesso anno, gli Stati Uniti fanno esplodere la loro prima bomba H (all’idrogeno). Nel 1960 i paesi NATO in possesso di armi nucleari salgono a tre, quando la Francia fa esplodere in febbraio, nel Sahara, la sua prima bomba nucleare.
Mentre è in pieno svolgimento la corsa agli armamenti nucleari, esplode nell’ottobre 1962 la crisi dei missili a Cuba: dopo la fallita invasione armata dell’isola nell’aprile 1961, ad opera di fuoriusciti sostenuti dalla CIA statunitense, l’URSS decide di fornire a Cuba missili balistici a gittata media e intermedia. Gli Stati Uniti effettuano il blocco navale dell’isola e mettono in allerta le forze nucleari: oltre 130 missili balistici intercontinentali sono pronti al lancio; 54 bombardieri con a bordo armi nucleari vengono aggiunti ai 12 che il Comando aereo strategico mantiene sempre in volo ventiquattr’ore su ventiquattro, pronti all’attacco nucleare. Gli Stati Uniti dispongono in quel momento di oltre 25500 armi nucleari, cui se ne aggiungono circa 210 britanniche, mentre l’URSS ne possiede circa 3.350. La crisi, che porta il mondo sulla soglia della guerra nucleare, viene disinnescata dalla decisione sovietica di non installare i missili, in cambio dell’impegno statunitense a togliere il blocco e rispettare l’indipendenza di Cuba.
Nello stesso periodo la Cina si muove verso l’acquisizione di armi nucleari e, nell’ottobre 1964, fa esplodere la sua prima bomba all’uranio e, dopo nemmeno tre anni, la sua prima bomba H.
Di pari passo con la crescita del proprio arsenale, il Pentagono mette a punto dettagliati piani operativi di guerra nucleare contro l’URSS e la Cina. Un dossier di 800 pagine – reso pubblico nel 2015 dall’archivio del governo USA – contiene una lista (fino a quel momento top secret) di migliaia di obiettivi in URSS, Europa Orientale e Cina che gli USA si preparavano a distruggere con armi nucleari durante la guerra fredda. Nel 1959, l’anno a cui si riferisce la «target list», gli USA dispongono di oltre 12 mila testate nucleari più circa 80 britanniche, mentre l’URSS ne possiede circa mille e la Cina non ne ha ancora. Essendo superiore anche come vettori (bombardieri e missili), il Pentagono ritiene attuabile un attacco nucleare.
gli strateghi statunitensi – racconterà successivamente Paul Johnstone, per due decenni (1949-1969) analista del Pentagono per la pianificazione della guerra nucleare – vi è in quel periodo la convinzione che gli Stati Uniti, pur subendo in uno scambio nucleare gravi danni  e molti milioni di morti, continuerebbero a esistere quale nazione organizzata e vitale, e infine prevarrebbero, mentre l’Unione Sovietica non sarebbe in grado d farlo.
Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, gli USA hanno circa 9.000 armi nucleari schierate fuori del proprio territorio: circa 7.000 nei paesi europei della NATO, 2.000 in paesi asiatici (Corea del Sud, Filippine, Giappone). Oltre a queste, hanno 3.000 armi a bordo di sottomarini e altre unità navali, che possono in ogni momento lanciare, da posizioni avanzate, contro l’Unione Sovietica e altri paesi. L’URSS, che non ha basi avanzate fuori del proprio territorio in prossimità degli Stati Uniti (a cui può avvicinarsi però con i sottomarini nucleari), cerca di dimostrare che, se venisse attaccata, potrebbe lanciare una rappresaglia devastante. A conferma di ciò fa esplodere, in un test condotto il 20 ottobre 1961, la più potente bomba all’idrogeno mai sperimentata, la «Zar» da 58 megaton, equivalente a quasi 4.500 bombe di Hiroshima. L’Unione Sovietica prepara allo stesso tempo un’arma spaziale: un missile che, se messo in orbita attorno alla Terra, potrebbe colpire in ogni momento gli Stati Uniti con una testata nucleare.
A questo punto gli Stati Uniti, messi in difficoltà, propongono all’Unione Sovietica un trattato sull’uso pacifico dello spazio. Viene così firmato, nel gennaio 1967, il Trattato sullo spazio esterno, che vieta di collocare armi nucleari nell’orbita terrestre, sulla Luna o su altri corpi celesti, o, comunque, stazionarli nello spazio extra-atmosferico.
Subito dopo, nel luglio 1968, viene stipulato il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari (TNP). Lo promuovono Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, preoccupati dal fatto che altri paesi vogliono entrare nella cerchia delle potenze nucleari. L’Articolo 1 stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente nucleari si impegna a non trasferire a chicchessia armi nucleari». L’Articolo 2 stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente». Le potenze nucleari si impegnano a perseguire negoziati su un Trattato che stabilisca il disarmo generale sotto controllo internazionale (Art. 6). L’Italia firma il TNP nel 1969 e lo ratifica nel 1975.
Mentre Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica cercano di impedire con il Trattato di non-proliferazione che altri paesi entrino nel club nucleare, di cui nel 1968 fanno parte cinque membri, un sesto paese si infiltra nella cerchia delle potenze nucleari riuscendo non solo a entrarvi ma, una volta dentro, a rendersi ufficialmente invisibile: il convitato di pietra è Israele. Nello stesso momento in cui, nel 1968, viene aperto alla firma il Trattato di non-proliferazione, Israele sta già schierando in segreto le sue prime armi nucleari. Negli Anni Settanta e Ottanta anche Sudafrica, India e Pakistan cominciano a costruire armi nucleari. Nel 1986 l’arsenale mondiale sale al suo massimo livello: circa 65.000 armi nucleari.
È in questa fase che l’Europa viene trasformata in prima linea nel confronto nucleare tra le due superpotenze. Tra il 1976 e il 1980 l’URSS schiera sul proprio territorio missili balistici di gittata intermedia. Sulla base del fatto che dal territorio sovietico essi possono colpire l’Europa occidentale, la NATO decide di schierare in Europa, a partire dal 1983, missili nucleari statunitensi a gittata intermedia: 108 missili balistici Pershing 2 in Germania e 464 missili da crociera (Cruise) lanciati da terra, distribuiti tra  Gran Bretagna, Italia, Germania occidentale, Belgio e Paesi Bassi.
In meno di 10 minuti dal lancio, i Pershing 2 statunitensi schierati in Germania possono colpire le basi e le città sovietiche, compresa Mosca, con le loro testate nucleari. Contemporaneamente, i missili da crociera statunitensi schierati a Comiso e in altre basi europee, volando a velocità subsonica a una quota di poche decine di metri lungo il contorno del terreno, possono sfuggire ai radar e colpire le città sovietiche. A loro volta, gli SS-20 schierati in territorio sovietico possono colpire, in meno di 10 minuti dal lancio,  le basi e città dell’Europa occidentale.
In Italia, alla metà degli Anni Ottanta, oltre a 112 testate nucleari sui missili da crociera schierati a Comiso, vi sono altre armi nucleari statunitensi per un totale stimato in circa 700. Esse sono costituite per la maggior parte da mine da demolizione atomica, proiettili nucleari di artiglieria e missili nucleari a corto raggio, destinati ad essere usati sul territorio italiano. Ciò indica che l’Italia è considerata dal Pentagono una semplice pedina da sacrificare, un terreno di battaglia nucleare da trasformare in deserto radioattivo.
Durante la guerra fredda, dal 1945 al 1991, si accumula nel mondo un arsenale nucleare che, negli anni Ottanta, raggiunge probabilmente i 15.000 megaton, equivalenti a oltre un milione di bombe di Hiroshima. E’ come se ogni abitante del pianeta fosse seduto su 3 tonnellate di tritolo. La potenza dell’arsenale nucleare supera di 5.000 volte quella di tutti gli ordigni esplosivi usati nella Seconda guerra mondiale. Si crea, per la prima volta nella storia, una forza distruttiva che può cancellare dalla faccia della Terra, non una ma più volte, la specie umana e quasi ogni altra forma di vita.

2. Nel dopo-guerra fredda la NATO si rinnova

Nella seconda metà degli anni Ottanta il clima della guerra fredda comincia a cambiare. Il primo segnale di disgelo è il Trattato sulle forze nucleari intermedie (INF), firmato a Washington l’8 dicembre 1987 dai presidenti Reagan e Gorbaciov : in base ad esso gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si impegnano a eliminare tutti i missili di tale categoria, compresi i Pershing 2 e i Cruise schierati dagli USA in paesi europei della NATO e gli SS-20 schierati dall’URSS sul proprio territorio. Entro il maggio 1991 vengono eliminati, in totale, 2.692 missili di questa categoria.
Questo importante risultato è dovuto sostanzialmente  all’«offensiva del disarmo» lanciata dall’Unione Sovietica di Gorbaciov: il 15 gennaio 1986, essa propone non solo di eliminare i missili sovietici e statunitensi a gittata intermedia, ma di attuare un programma complessivo per la messa al bando delle armi nucleari entro il 2000. A Washington sanno che Gorbaciov vuole davvero la completa eliminazione di tali armi, ma sanno anche che nel Patto di Varsavia e nella stessa Unione Sovietica è in atto un processo di disgregazione, processo che gli Stati Uniti e i loro alleati favoriscono con tutti i mezzi possibili .
Dopo il crollo del Muro di Berlino nel novembre 1989, nel luglio 1991 si dissolve il Patto di Varsavia: i sei paesi dell’Europa centro-orientale che ne facevano parte non sono ora più alleati dell’URSS. Nel dicembre 1991 si dissolve la stessa Unione Sovietica: al posto di un unico Stato se ne formano quindici. La scomparsa dell’URSS e del suo blocco di alleanze crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. Contemporaneamente, la disgregazione dell’URSS e la profonda crisi politica ed economica che investe la Federazione Russa segnano la fine della superpotenza in grado di rivaleggiare con quella statunitense.
Gli Stati Uniti approfittano immediatamente della «distensione» in Europa per concentrare le loro forze nell’area strategica del Golfo Persico dove, con un’abile manovra, preparano le condizioni per scatenare quello che il Pentagono definisce «il primo conflitto del dopo guerra fredda, un evento determinante nella leadership globale degli Stati Uniti». Il 17 gennaio 1991 viene lanciata contro l’Iraq «la più intensa campagna di bombardamento della storia»: in 43 giorni l’aviazione statunitense e alleata (tra cui quella italiana) sgancia, con 2.800 aerei, circa 250.000 bombe, comprese quelle a grappolo che rilasciano complessivamente oltre 10 milioni di submunizioni, mentre le cannoniere volanti, gli elicotteri e i carri armati sparano oltre un milione di proiettili a uranio impoverito. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendenti oltre mezzo milione di  soldati, lanciano l’offensiva terrestre che, dopo cento ore di carneficina, termina il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush.
La NATO, pur non partecipando in quanto tale alla guerra del Golfo, fornisce l’appoggio di tutta la sua infrastruttura alle forze della coalizione. Partecipano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi, mentre forze  britanniche e francesi affiancano quelle statunitensi nell’offensiva terrestre.
La nuova strategia viene ufficialmente enunciata, sei mesi dopo la fine della guerra del Golfo, nella National Security Strategy of the United States pubblicata dalla Casa Bianca nell’agosto 1991. Concetto centrale è che «gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali: non esiste alcun sostituto alla leadership americana. La nostra responsabilità, anche nella nuova era, è di importanza cardinale e ineludibile».
Un documento del Pentagono, redatto nel febbraio 1992, chiarisce che «il nostro obiettivo primario è impedire il riemergere di un nuovo rivale, o sul territorio dell'ex Unione Sovietica o altrove, che ponga una minaccia nell'ordine di quella posta precedentemente dall'Unione Sovietica. La nuova strategia richiede che noi operiamo per impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti, se controllate strettamente, a generare una potenza globale. Tale strategia sarà adottata in tutte le «regioni critiche per la sicurezza degli Stati Uniti, le quali comprendono l'Europa, l'Asia Orientale, il Medio Oriente, l'Asia Sud-Occidentale e il territorio dell'ex Unione  Sovietica. Abbiamo in gioco importanti interessi anche in America Latina, Oceania e Africa subsahariana».
«Una questione chiave – sottolinea la Casa Bianca nella National Security Strategy 1991 – è come il ruolo dell'America di leader dell'Alleanza, e in effetti le nostre stesse alleanze,  saranno influenzati, specialmente in Europa, dalla riduzione della minaccia sovietica.  Le differenze tra gli alleati diverranno probabilmente più evidenti man mano che calerà la tradizionale preoccupazione per la sicurezza che li fece unire all'inizio». In altre parole: gli alleati europei potrebbero fare scelte divergenti da quelle degli Stati Uniti, mettendo in discussione la leadership statunitense o addirittura uscendo dalla NATO, ormai superata dalla nuova situazione geopolitica. E’ quindi della massima urgenza per gli Stati Uniti ridefinire non solo la strategia, ma il ruolo stesso della NATO.
Il 7 novembre 1991, i capi di stato e di governo dei sedici paesi della NATO, riuniti a Roma nel Consiglio atlantico, varano «Il nuovo concetto strategico dell'Alleanza». Anche se da un lato «è scomparsa la monolitica, massiccia minaccia che è stata la principale preoccupazione dell'Alleanza nei suoi primi quarant'anni, – afferma il documento – i rischi che permangono per la sicurezza dell'Alleanza sono di natura multiforme e multidirezionali. La dimensione militare della nostra Alleanza resta perciò un fattore essenziale, ma il fatto nuovo è che sarà più che mai al servizio di un concetto  ampio di sicurezza». In tal modo l'Alleanza Atlantica ridefinisce il suo ruolo, fondamentalmente lungo le linee tracciate dagli USA. 

3. La NATO demolisce lo Stato Jugoslavo

Il «nuovo concetto strategico» della NATO viene messo in pratica nei Balcani, dove la crisi della Federazione Jugoslava, dovuta ai contrasti tra i gruppi di potere e alle spinte centrifughe delle repubbliche,  ha raggiunto il punto di rottura.
Nel novembre 1990, il Congresso degli Stati Uniti approva il finanziamento diretto di tutte le nuove formazioni «democratiche» della Jugoslavia, incoraggiando così le tendenze secessioniste. In dicembre, il parlamento della Repubblica Croata, controllato dal partito di Franjo Tudjman, emana una nuova Costituzione in base alla quale la Croazia è solo «patria dei croati» ed è sovrana sul suo territorio. Sei mesi dopo, nel giugno 1991, oltre alla Croazia,  anche la Slovenia proclama la propria indipendenza. Subito dopo, scoppiano scontri tra l’esercito federale e gli indipendentisti. In ottobre, in Croazia, il governo Tudjman espelle oltre 25 mila serbi. mentre sue milizie occupano Vukovar. L’esercito federale risponde, riprendendo la città. La guerra civile comincia a estendersi, ma potrebbe ancora essere fermata.
La via che viene imboccata è invece diametralmente opposta: la Germania, impegnata a estendere la sua influenza economica e politica nella regione balcanica, nel dicembre 1991 riconosce unilateralmente Croazia e Slovenia quali Stati indipendenti. Come conseguenza, il giorno dopo i serbi di Croazia proclamano a loro volta l’autodeterminazione, costituendo la Repubblica serba della Krajna. Nel gennaio 1992, prima il Vaticano e poi l’Europa dei dodici riconoscono, oltre alla Croazia, anche la Slovenia. A questo punto si incendia anche la Bosnia-Erzegovina che, in piccolo, rappresenta l’intera gamma dei nodi etnici e religiosi della Federazione Jugoslava.
I caschi blu dell’ONU, inviati in Bosnia come forza di interposizione tra le fazioni in lotta, vengono volutamente lasciati in numero insufficiente, senza mezzi adeguati e senza precise direttive, finendo col divenire ostaggi nel mezzo dei combattimenti. Tutto concorre a dimostrare il «fallimento dell’ONU» e la necessità che sia la NATO a prendere in mano la situazione. Nel luglio 1992 la NATO lancia la prima operazione di «risposta alla crisi», per imporre l’embargo alla Jugoslavia.
Nel febbraio 1994, aerei NATO abbattono aerei serbo-bosniaci che volano sulla Bosnia. E’ la prima azione di guerra dalla fondazione dell’Alleanza. Con essa la NATO viola l’art. 5 della sua stessa carta costitutiva, poiché l’azione bellica non è motivata dall’attacco a un membro dell’Alleanza ed è effettuata fuori dalla sua area geografica.
Spento l’incendio in Bosnia (dove il fuoco resta sotto la cenere della divisione in Stati etnici), la NATO getta benzina sul focolaio del Kosovo, dove è in corso da anni una rivendicazione di indipendenza da parte della maggioranza albanese. Attraverso canali sotterranei in gran parte gestiti dalla CIA, un fiume di armi e finanziamenti, tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999, va ad alimentare l’UCK (Esercito di liberazione del Kosovo), braccio armato del  movimento separatista kosovaro-albanese. Agenti della CIA dichiareranno successivamente di essere entrati in Kosovo nel 1998 e 1999, in veste di osservatori dell’OSCE incaricati di verificare il «cessate il fuoco», fornendo all’UCK manuali statunitensi di addestramento militare e telefoni satellitari, così che i comandanti della guerriglia potessero stare in contatto con la NATO e Washington. L’UCK può così scatenare un’offensiva contro le truppe federali e i civili serbi, con centinaia di attentati e rapimenti.
Mentre gli scontri tra le forze jugoslave e quelle dell’UCK provocano vittime da ambo le parti, una potente campagna politico-mediatica prepara l’opinione pubblica internazionale all’intervento della NATO, presentato come l’unico modo per fermare la «pulizia etnica» serba in Kosovo. Bersaglio prioritario è il presidente della Jugoslavia, Slobodan Milosevic, accusato di «pulizia etnica».
La guerra, denominata «Operazione Forza Alleata», inizia il 24 marzo 1999. Determinante è il ruolo dell’Italia: il governo D’Alema mette il territorio italiano, in particolare gli aeroporti, a completa disposizione delle forze armate degli Stati Uniti e di altri paesi, per attuare quello che il presidente del consiglio definisce «il diritto d’ingerenza umanitaria». Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi italiane, 1.100 aerei effettuano 38 mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili. Il 75 per cento degli aerei e il 90 per cento delle bombe e dei missili vengono forniti dagli Stati Uniti. Statunitense è anche la rete di comunicazione, comando, controllo e intelligence attraverso cui vengono condotte le operazioni: «Dei 2000 obiettivi colpiti in Serbia dagli aerei della NATO – documenta successivamente il Pentagono – 1999 sono stati scelti dall’intelligence statunitense e solo uno dagli europei».
Sistematicamente, i bombardamenti smantellano le strutture e infrastrutture della Serbia, provocando vittime soprattutto tra i civili. I danni che ne derivano per la salute e l’ambiente sono inquantificabili. Solo dalla raffineria di Pancevo fuoriescono, a causa dei bombardamenti, migliaia di tonnellate di sostanze chimiche altamente tossiche (compresi diossina e mercurio). Altri danni vengono provocati dal massiccio impiego da parte della NATO, in Serbia e Kosovo, di proiettili a uranio impoverito, già usati nella guerra del Golfo.
Ai bombardamenti partecipano anche 54 aerei italiani, che attaccano gli obiettivi indicati dal comando statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli USA. L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra», dichiara coin orgoglio l presidente del consiglio D’Alema durante la visita compiuta il 10 giugno 1999 alla base di Amendola, sottolineando che, per i piloti che vi hanno partecipato, è stata «una grande esperienza umana e professionale».
Il 10 giugno 1999 le truppe della Federazione Jugoslava cominciano a ritirarsi dal Kosovo e la NATO mette fine ai bombardamenti. La risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dispone che la presenza internazionale deve avere una «sostanziale partecipazione della NATO». «Oggi la NATO affronta la sua nuova missione: quella di governare», commenta The Washington Post.
Finita la guerra, vengono inviati in Kosovo dagli Stati Uniti oltre 60 agenti dell’FBI, ma non vengono trovate tracce di eccidi tali da giustificare l’accusa, fatta ai serbi, di «pulizia etnica». Slobodan Milosevic, condannato a 40 anni di reclusione dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia per l’ex Jugoslavia, muore dopo cinque anni di carcere. La stessa corte lo scagiona, nel 2016, dall’accusa di «pulizia etnica». 
Il Kosovo, dove gli USA installano una grande base militare (Camp Bondsteel),  diviene una sorta di protettorato della NATO. Contemporaneamente, sotto la copertura della «Forza di pace», l’ex UCK al potere terrorizza ed espelle oltre 250 mila serbi, rom, ebrei e albanesi bollati come collaborazionisti. Nel 2008, con l’autoproclamazione del Kosovo quale Stato indipendente,  viene ultimata la demolizione della Federazione Jugoslava.
Mentre è in corso la guerra contro la Jugoslavia, viene convocato a Washington, il 23-25 aprile 1999, il vertice che ufficializza la trasformazione della NATO. Da alleanza che, in base all’articolo 5 del Trattato del 4 aprile 1949, impegna i paesi membri ad assistere anche con la forza armata il paese membro che sia attaccato nell’area nord-atlantica, essa viene trasformata in alleanza che, in base al «nuovo concetto strategico», impegna i paesi membri anche a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’Articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza». In altre parole, la NATO si prepara a proiettare la propria forza militare al di fuori dei propri confini non solo in Europa, ma anche in altre regioni del mondo.
Ciò che non cambia, nella mutazione della NATO, è la gerarchia al suo interno. È sempre il Presidente degli Stati Uniti a nominare il Comandante Supremo Alleato in Europa, che è sempre un generale statunitense, mentre gli alleati si limitano a ratificare la scelta. Lo stesso avviene per gli altri comandi chiave.
Il documento che impegna i paesi membri a operare al di fuori del territorio dell’Alleanza, sottoscritto dai leader europei il 24 aprile 1999 a Washington, ribadisce che la NATO «sostiene pienamente lo sviluppo dell’identità europea della difesa, all’interno dell’Alleanza». Il concetto è chiaro: l’Europa Occidentale può avere una sua  «identità della difesa», ma essa deve restare  all’interno dell’Alleanza, ossia sotto comando Usa.
Viene così confermata e consolidata la subordinazione dell’Unione Europea alla NATO. Subordinazione stabilita dal Trattato di Maastricht del 1992, che riconosce il diritto degli Stati UE di far parte della NATO, definita fondamento della difesa dell’Unione Europea.
L’Italia – partecipando alla guerra contro la Jugoslavia, paese che non aveva compiuto alcuna azione aggressiva né contro l’Italia né contro altri membri della NATO – conferma di aver adottato una nuova politica militare e, contestualmente, una nuova politica estera. Questa, usando come strumento la forza militare, viola il principio costituzionale, affermato dall’Articolo 11, che «l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

4.  La NATO si espande ad Est verso la Russia

Nel 1990, alla vigilia dello scioglimento del Patto di Varsavia, il Segretario di stato Usa James Baker assicurava il Presidente dell'URSS Mikhail Gorbaciov che «la NATO non si estenderà di un solo pollice ad Est». Ma in vent’anni, dopo aver demolito la Federazione Jugoslava, la NATO si estende da 16 a 30 paesi, espandendosi sempre più ad Est verso la Russia.
Nel 1999 ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Federazione Jugoslava). Nel 2009 ingloba l’Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e la Croazia (già parte della Federazione Jugoslava) e, nel 2017, il Montenegro; nel 2019 firma il protocollo di adesione della Macedonia del Nord quale 30° membro. Altri tre paesi – Bosnia Erzegovina (già parte della Federazione Jugoslava), Georgia e Ucraina (già parte dell’Urss) – sono candidati a entrare nella NATO.
Così Washington lega questi paesi non tanto all’Alleanza, quanto direttamente agli USA, rafforzando la sua influenza all’interno dell’Unione Europea. Sui dieci paesi dell’Europa centro-orientale che entrano nella NATO tra il 1999 e il 2004, sette entrano nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2007: all’Unione Europea che si allarga a Est, gli Stati Uniti sovrappongono la NATO che si allarga a Est sull’Europa. Si rivela così, chiaramente, il disegno strategico di Washington: far leva sui nuovi membri dell’Est per stabilire nella NATO rapporti di forza ancora più favorevoli agli Stati Uniti, così da isolare la «vecchia Europa» che potrebbe un giorno rendersi autonoma.
L’espansione a Est ha, oltre a queste, altre implicazioni. Inglobando non solo i paesi dell’ex Patto di Varsavia ma anche le tre repubbliche baltiche un tempo facenti parte dell’Urss, la NATO arriva fino ai confini della Federazione Russa. Nonostante le assicurazioni di Washington sulle sue intenzioni pacifiche, ciò costituisce una minaccia, anche nucleare, verso la Russia.

5. USA e NATO attaccano l’Afghanistan e l’Iraq

Gli Stati Uniti attaccano e invadono l’Afghanistan, nel 2001, con la motivazione ufficiale di dare la caccia a Osama bin Laden, indicato come mandante degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 (la cui versione ufficiale non regge alle indagini tecnico-scientifiche effettuate da esperti indipendenti). Osama bin Laden è una figura ben nota a Washington: appartenente a una ricca famiglia saudita, aveva collaborato attivamente con la CIA quando, dal 1979 al 1989, essa aveva addestrato e armato  tramite l’ISI (il servizio segreto pachistano) oltre 100 mila mujaidin per la guerra contro le truppe sovietiche cadute nella «trappola afghana» (come la definirà in seguito Zbigniew Brzezinski, precisando che l’addestramento e l’armamento dei mujaidin erano iniziati nel luglio 1979, cinque mesi prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan).
Si apre così una nuova fase della situazione internazionale: il presidente degli Stati Uniti viene autorizzato a condurre la «guerra globale al terrorismo», in cui non vi sono confini geografici, condotta contro un nemico che può essere identificato di volta in volta non solo in un terrorista o presunto tale, ma in chiunque si opponga alla politica e agli interessi statunitensi. L’immagine perfetta di nemico, intercambiabile e duratura. Il presidente Bush lo definisce «un nemico oscuro, che si nasconde negli angoli bui della Terra».
Scopo reale dell’intervento militare USA in Afghanistan è l’occupazione di quest’area di primaria importanza strategica. L’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) ci sono grandi riserve petrolifere. Vi si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse».
Nel periodo precedente l’11 settembre 2001, vi sono in Asia forti segnali di un riavvicinamento tra Cina e Russia. Washington considera tale fatto una sfida agli interessi statunitensi nel momento critico in cui gli Stati Uniti cercano di occupare il vuoto che la disgregazione dell’URSS ha lasciato in Asia Centrale. Una posizione geostrategica chiave per il controllo di quest’area è quella dell’Afghanistan.
La guerra inizia nell’ottobre 2001 con il bombardamento effettuato dall’aviazione statunitense e britannica. A questo punto il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizza la costituzione dell’ISAF (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza), la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda. Ma improvvisamente, nell’agosto 2003, la NATO annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’ISAF, forza con mandato ONU». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la NATO ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’ISAF. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della NATO nel dirigere l’ISAF». La missione ISAF viene in tal modo inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’ISAF.
Dopo l’Afghanistan è il turno dell’Iraq, paese sottoposto dal 1991 a un ferreo embargo che ha provocato in dieci anni un milione e mezzo di morti, di cui circa mezzo milione tra i bambini. Il presidente Bush mette l’Iraq, nel 2002, al primo posto tra i paesi facenti parte dell’«asse del male». Il segretario di stato Colin Powell presenta al Consiglio di sicurezza dell’ONU una serie di «prove» raccolte dalla CIA, che successivamente risulteranno false, sulla presunta esistenza di un grosso arsenale di armi chimiche e batteriologiche in possesso dell’Iraq, e su una sua presunta capacità di costruire in breve tempo armi nucleari. Poiché il Consiglio di sicurezza si rifiuta di autorizzare la guerra, l’amministrazione Bush semplicemente lo scavalca.
La guerra inizia nel marzo 2003 con il bombardamento aereo di Baghdad e altri centri da parte dell’aviazione statunitense e britannica e con l’attacco terrestre effettuato dai marines entrati in Iraq dal Kuwait. In aprile truppe USA occupano Baghdad. L’operazione, denominata «Iraqi Freedom», viene presentata come  «guerra preventiva» ed «esportazione della democrazia». Le forze di occupazione statunitensi e alleate – comprese quelle italiane impegnate nell’operazione «Antica Babilonia» – incontrano una resistenza che non si aspettavano di trovare. Per stroncarla, l’Iraq viene messo a ferro e fuoco da oltre un milione e mezzo di soldati, che il Pentagono vi disloca a rotazione insieme a centinaia di migliaia di contractor militari, usando ogni mezzo: dalle bombe al fosforo contro la popolazione di Falluja alle torture nella prigione di Abu Ghraib.
La NATO partecipa di fatto alla guerra con proprie strutture e forze. Nel 2004 viene istituita la «Missione NATO di addestramento», al fine dichiarato di «aiutare l’Iraq a creare efficienti forze armate». Vengono addestrati, in 2.000 corsi speciali tenuti in paesi dell’Alleanza, migliaia di militari e poliziotti iracheni. Contemporaneamente la NATO invia istruttori e consiglieri, compresi quelli italiani, per «aiutare l’Iraq a creare un proprio settore della sicurezza a guida democratica e durevole» e per «stabilire una partnership a lungo termine della NATO con l’Iraq». 

6. La NATO demolisce lo Stato libico

Molteplici fattori rendono la Libia importante agli occhi degli Stati Uniti e delle potenze europee. Essa possiede le maggiori riserve petrolifere dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale. Su queste lo Stato libico mantiene un forte controllo, lasciando alle compagnie statunitensi ed europee limitati margini di profitto. Oltre all’oro nero, la Libia possiede l’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Rilevanti sono i fondi sovrani, i capitali che lo Stato libico ha investito all’estero, in particolare per dotare Africa di propri organismi finanziari e di una propria moneta.
Alla vigilia della guerra del 2011,  gli Stati Uniti e le potenze europee «congelano», ossia sequestrano, i fondi sovrani libici, assestando un colpo mortale all’intero progetto. Le mail di Hillary Clinton (segretaria di stato dell’amministrazione Obama nel 2011), venute alla luce successivamente, confermano quale fosse il vero scopo della guerra: bloccare il piano di Gheddafi di usare i fondi sovrani libici per creare organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana e una moneta africana in alternativa al dollaro e al franco CFA (la moneta che sono costretti a usare 14 paesi africani, ex-colonie francesi). È la Clinton – documenterà in seguito il New York Times – a far firmare al presidente Obama «un documento che autorizza una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli».
Vengono finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. Vengono allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. L’intera operazione viene diretta dagli Stati Uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la NATO sotto comando USA.
Il 19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale della Libia. In sette mesi l’aviazione USA/NATO effettua 30 mila missioni, di cui 10 mila di attacco con impiego di oltre 40 mila bombe e missili. A questa guerra partecipa l’Italia con le sue basi e forze militari, stracciando il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due paesi. Per la guerra alla Libia, l’Italia mette a disposizione delle forze USA/NATO 7 basi aeree (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, Aviano, Amendola e Pantelleria), assicurando assistenza tecnica e rifornimenti. L’Aeronautica italiana partecipa alla guerra effettuando oltre mille  missioni, e la Marina militare italiana viene  impegnata su più fronti.
Con la guerra USA/NATO del 2011, viene demolito lo Stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi. Viene demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo di fronte all’Italia, manteneva «alti livelli di crescita economica» (come documentava nel 2010 la stessa Banca Mondiale), registrando «alti indicatori di sviluppo umano» tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per il 46%, a quella di livello universitario. Nonostante le disparità, il tenore di vita della popolazione libica era notevolmente più alto di quello degli altri paesi africani. Lo testimoniava il fatto che trovavano lavoro in Libia oltre due milioni di immigrati, per lo più africani.
Vengono colpiti dalla guerra anche gli immigrati dall’Africa subsahariana che, perseguitati con l’accusa di aver collaborato con Gheddafi, sono imprigionati o costretti a fuggire. Molti, spinti dalla disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa. Quelli che vi perdono la vita sono anch’essi vittime della guerra con cui la NATO ha demolito lo Stato libico.

7. La guerra USA/NATO per demolire la Siria

Dopo aver demolito lo Stato libico inizia, nello stesso anno 2011, l’operazione USA/NATO per demolire lo Stato siriano. Una delle ragioni è il fatto che Siria, Iran e Iraq firmano nel luglio 2011 un accordo per un gasdotto che dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del mondo, alla Siria e quindi al Mediterraneo. La Siria, dove è stato scoperto un altro grosso giacimento presso Homs, potrebbe divenire in tal modo un hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee.
La guerra coperta inizia con una serie di attentati terroristici, effettuati soprattutto a Damasco ed Aleppo. Eloquenti sono le immagini degli edifici devastati con potentissimi esplosivi: opera non di semplici ribelli, ma di professionisti della guerra infiltrati. Centinata di specialisti delle forze d’élite britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily Star – operano in Siria, insieme a unità statunitensi e francesi.
La forza d’urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen – riferisce l’inviato del Guardian ad Aleppo – gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità CIA), i combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai, confinanti con la Siria, dove la CIA ha aperto centri di formazione militare. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, fornisce anche forze speciali.
Il comando delle operazioni è a bordo di navi NATO nel porto di Alessandretta. A Istanbul viene aperto un centro di propaganda dove dissidenti siriani, formati e finanziati dal Dipartimento di stato USA, confezionano le notizie e i video che vengono diffusi tramite reti satellitari.
Da appositi centri operativi, agenti della CIA provvedono all’acquisto delle armi con grossi finanziamenti concessi da Arabia Saudita, Qatar e altre monarchie del Golfo. Organizzano il trasporto delle armi in Turchia e Giordania attraverso un ponte aereo, le fanno infine arrivare attraverso la frontiera ai gruppi in Siria, già addestrati in appositi campi allestiti in territorio turco e giordano.
Quale sia la strategia emerge da documenti venuti successivamente alla luce. La segretaria di stato Hillary Clinton, in una mail del 2012 (declassificata come «case number F-2014-20439, Doc No. C05794498»), scrive che, data la «relazione strategica» Iran-Siria, «il rovesciamento di Assad costituirebbe un immenso beneficio per Israele, e farebbe anche diminuire il comprensibile timore israeliano di perdere il monopolio nucleare».
Un documento ufficiale del Pentagono, datato 12 agosto 2012 (desecretato il 18 maggio 2015 per iniziativa del gruppo Judicial Watch), afferma che «i paesi occidentali, gli Stati del Golfo e la Turchia sostengono in Siria le forze di opposizione che tentano di controllare le aree orientali, adiacenti alle province irachene occidentali», aiutandole a «creare rifugi sicuri sotto protezione internazionale». C’è «la possibilità di stabilire un principato salafita nella Siria orientale, e ciò è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione, per isolare il regime siriano, retrovia strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran)».
È in tale contesto che nel 2013 si forma l’ISIS (o DAESH), che si autoproclama «Stato del califfato islamico». Nel maggio 2013, un mese dopo aver fondato l’ISIS, Ibrahim al-Badri – il «califfo» noto col nome di battaglia di Abu Bakr al-Baghdadi – incontra in Siria il senatore statunitense John McCain, capofila dei repubblicani incaricato dal democratico Obama di svolgere operazioni segrete per conto del governo. L’incontro è documentato fotograficamente.
L’ISIS riceve finanziamenti, armi e vie di transito dai più stretti alleati degli Stati Uniti: Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Turchia, Giordania, in base a un piano sicuramente coordinato dalla CIA. Dopo aver conquistato con le sue milizie gran parte del territorio siriano, l’ISIS lancia l’offensiva in Iraq, non a caso nel momento in cui il governo presieduto dallo sciita Nouri al-Maliki prende le distanze da Washington, avvicinandosi sempre più a Cina e Russia. L’offensiva, che incendia l’Iraq, trova materia infiammabile nella rivalità sunniti-sciiti. Le milizie dell’ISIS occupano Ramadi, la seconda città dell’Iraq, e subito dopo Palmira nella Siria centrale, uccidendo migliaia di civili e costringendone alla fuga decine di migliaia
L’ISIS svolge di fatto un ruolo funzionale alla strategia USA/NATO di demolizione degli stati. Ciò non significa che la massa dei suoi militanti, proveniente da diversi paesi, ne sia consapevole. Essa è molto composita: ne fanno parte sia combattenti islamici, formatisi nel dramma della guerra, sia ex militari dell’epoca di Saddam Hussein che hanno combattuto contro gli invasori, sia molti altri le cui storie sono sempre legate alle tragiche situazioni sociali provocate dalla prima guerra del Golfo e dalle successive nell’arco di oltre vent’anni. Ne fanno parte anche diversi foreign fighters provenienti da Europa e Stati Uniti, dietro le cui maschere certamente si nascondono agenti segreti appositamente formati per tali operazioni.
Molto sospetto è anche l’illimitato accesso che l’ISIS ha, nel suo periodo di massimo sviluppo, alle reti mediatiche mondiali, dominate dai colossi statunitensi ed europei, attraverso cui diffonde i filmati delle decapitazioni che, suscitando orrore, creano una vasta opinione pubblica favorevole all’intervento in Iraq e Siria.
La campagna militare «Inherent Resolve», formalmente diretta contro l’ISIS, viene lanciata in Iraq e Siria  nell’agosto 2014 dagli USA e i loro alleati: Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e altri. Se Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna usassero i loro cacciabombardieri come avevano fatto contro la Libia nel 2011, le forze dell’ISIS, muovendosi in spazi aperti, sarebbero facile bersaglio. Esse possono invece avanzare indisturbate con colonne di autoblindo cariche di uomini ed esplosivi. Se l’ISIS avanza in Siria e Iraq, è perché a Washington vogliono proprio questo. Lo scopo strategico di Washington è la demolizione della Siria e la rioccupazione dell’Iraq.
L’intervento militare russo in Siria nel 2015, a sostegno delle forze governative, rovescia le sorti del conflitto. I cacciabombardieri russi distruggono una dopo l’altra le roccaforti dell’ISIS, aprendo la strada alle forze di Damasco. Gli Stati Uniti, spiazzati, giocano la carta della frammentazione della Siria, sostenendo gli indipendentisti curdi e altri. Dopo che per cinque anni si è cercato di demolire lo Stato siriano, scardinandolo all’interno con gruppi terroristi armati e infiltrati dall’esterno e provocando oltre 250 mila morti, nel momento in cui l’operazione sta fallendo per l’intervento militare russo a sostegno delle forze governative siriane, gli apparati politico-mediatici dell’intero Occidente lanciano una colossale psyop (operazione psicologica) per far apparire come aggressori il governo e tutti quei siriani che resistono all’aggressione. Punta di lancia della psyop è la demonizzazione del presidente Assad (come già fatto con Milosevic e Gheddafi), presentato come un sadico dittatore che gode a bombardare ospedali e sterminare bambini, con l’aiuto dell’amico Putin, dipinto come neo-zar del rinato impero russo. Nel momento in cui cadono le ultime roccaforti dell’ISIS, gli stessi apparati politico-mediatici diffondono la fake news che l’ISIS è stato sconfitto dagli Stati Uniti e dalle «Forze democratiche siriane» (una milizia di curdi e arabi armata e sostenuta dal Pentagono). 

8.  Israele ed emiri nella NATO

Il giorno stesso (4 maggio 2016)) in cui si insedia alla NATO il nuovo Comandante Supremo Alleato in Europa – il generale USA Curtis Scaparrotti, nominato come i suoi 17 predecessori dal Presidente degli Stati Uniti – il Consiglio  Nord Atlantico annuncia che al quartier generale della NATO a Bruxelles viene istituita una Missione ufficiale israeliana, capeggiata dall’ambasciatore di Israele presso la UE.
Israele viene così integrato ancora di più nella NATO, alla quale è già strettamente collegato tramite il «Programma di cooperazione individuale», che era stato ratificato dalla NATO il 2 dicembre 2008, tre settimane prima dell’operazione israeliana «Piombo fuso» a Gaza. Esso comprende tra l’altro la collaborazione tra i servizi di intelligence e la connessione delle forze israeliane, comprese quelle nucleari, al sistema elettronico NATO.
Israele – l’unica potenza nucleare in Medioriente, non aderente al Trattato di non-proliferazione, sottoscritto invece dall’Iran che non ha armi nucleari – possiede (pur senza ammetterlo) un arsenale stimato in 100-400 armi nucleari, tra cui mini-nukes e bombe neutroniche di nuova generazione, e produce plutonio e trizio in quantità tale da costruirne altre centinaia. Le testate nucleari israeliane sono pronte al lancio su missili balistici e su cacciabombardieri dagli USA, cui si aggiungono ora gli F-35.
I principali paesi europei della NATO, che formalmente sostengono l’accordo sul nucleare iraniano stipulato nel 2015 (da cui gli USA sono usciti nel 2018), sono in realtà schierati con Israele. La Germania gli ha fornito sei sottomarini Dolphin, modificati così da poter lanciare missili da crociera a testata nucleare, ed ha approvato la fornitura di altri tre. Germania, Francia, Italia, Grecia e Polonia hanno partecipato, con gli USA, alla più grande esercitazione internazionale di guerra aerea nella storia di Israele, la Blue Flag 2017. L’Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare (Legge n. 94, 2005), vi ha partecipato con caccia Tornado del 6° Stormo di Ghedi, addetto al trasporto delle bombe nucleari USA.
Secondo il piano testato nella esercitazione USA-Israele Juniper Cobra 2018, forze USA e NATO arriverebbero dall’Europa (soprattutto dalle basi in Italia) per sostenere Israele in una guerra contro l’Iran. Essa potrebbe iniziare con un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, tipo quello effettuato nel 1981 a Osiraq in Iraq. In caso di rappresaglia iraniana, Israele potrebbe far uso di un’arma nucleare mettendo in moto una reazione a catena dagli esiti imprevedibili.
Alla Missione ufficiale israeliana presso la NATO si affiancano quelle del regno di Giordania e degli emirati del Qatar e del Kuwait, «partner molto attivi» che sono integrati ancor più nella NATO per meriti acquisiti. La Giordania ospita basi segrete della CIA nelle quali – documentano il New York Times e Der Spiegel – sono stati addestrati militanti islamici di Al Qaeda e dell’ISIS per la guerra coperta in Siria e Iraq. Il Qatar ha partecipato alla guerra NATO contro la Libia, infiltrando nel 2011 circa 5mila commandos sul suo territorio (come dichiarato a The Guardian dallo stesso Capo di stato maggiore qatariano), e a quella contro la Siria: lo ammette in una intervista al Financial Times l’ex primo ministro qatariano, Hamad bin Jassim Al Thani, che parla di operazioni qatariane e saudite di «interferenza» in Siria, coordinate degli Stati Uniti.
Il Kuwait, tramite l’«Accordo sul transito», permette alla NATO di avere il suo primo scalo aeroportuale nel Golfo, non solo per l’invio di forze e materiali militari in Afghanistan, ma anche per la «cooperazione pratica della NATO col Kuwait e altri partner, come l’Arabia Saudita». Partner sostenuti dagli USA nella guerra che fa strage di civili nello Yemen. Vi partecipa, con una quindicina di cacciabombardieri, anche il Kuwait, a cui l’Italia fornisce 28 caccia Eurofighter Typhoon di nuova generazione, dopo aver fornito a Israele 30 caccia M-346 da addestramento avanzato. Gli Eurofighter Typhoon, che il Kuwait usa per fare stragi nello Yemen e altrove, possono essere armati anche di bombe nucleari. All’addestramento degli equipaggi provvede l’Aeronautica italiana.

9. La regia USA/NATO nel colpo di stato in Ucraina

L’operazione condotta da USA e NATO in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica.
L’Ucraina – il cui territorio fa da cuscinetto tra NATO e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e UE – non entra direttamente nella NATO. Entra però a far parte, nel quadro della NATO, della «Partnership per la pace» contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani.
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione NATO-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla NATO. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata dagli USA e dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit NATO a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della NATO» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso.
In quello stesso anno l’esercito georgiano, addestrato e armato  dagli Stati Uniti e contemporaneamente da Israele attraverso compagnie militari «private», attacca l’Ossezia del Sud  in lotta dal 1991 (quando si disgrega l’Unione Sovietica) per rendersi indipendente dalla Georgia. Nella notte dell'8 agosto 2008 la Georgia, spalleggiata dalla NATO, lancia un'offensiva militare per riprendere il controllo della regione contesa. Poche ore dopo la Russia interviene militarmente, respingendo l’invasione georgiana, e l’Ossezia del Sud si rende a tutti gli effetti indipendente dalla Georgia. È il primo segnale dell’offensiva che la NATO, sotto comando USA, sta preparando sul fronte orientale per costringere la Russia a reagire.
In Ucraina, nel 2009, Kiev firma un accordo che permette il transito dal proprio territorio di rifornimenti per le forze NATO in Afghanistan. Ormai l’adesione sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla NATO non è nell’agenda del suo governo.  Nel frattempo però, fin dal 1991, la NATO ha tessuto una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del NATO Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania). Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti NATO. Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida NATO.
Poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la NATO costruisce una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare. Attraverso la CIA e altri servizi segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di UNO-UNSO addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori NATO, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati.
Lo stesso metodo usato dalla NATO, durante la guerra fredda, per formare la struttura paramilitare segreta «Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, venivano addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo di stato.
La struttura paramilitare dei gruppi neonazisti ucraini entra in azione nel 2014, in piazza Maidan a Kiev. Una manifestazione anti-governativa, con giuste rivendicazoni contro la dilagante corruzione e il peggioramento delle condizioni di vita, viene rapidamente trasformata in un vero e proprio campo di battaglia: mentre gruppi armati danno l’assalto ai palazzi di governo, cecchini (fatti venire appositamente a Kiev dalla Georgia) sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti che sui poliziotti.
Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della NATO si rivolge, con tono di comando, alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici delle forze armate e da gran parte dell’apparato governativo, il presidente Viktor Yanukovych è costretto alla fuga. Andriy Parubiy – cofondatore del partito nazionalsociale, costituito nel 1991 sul modello del Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler, e capo delle formazioni paramilitari neonaziste – viene messo a capo del «Consiglio di difesa e sicurezza nazionale».
Il putsch di Piazza Maidan è accompagnato da una campagna persecutoria, diretta in particolare contro il Partito comunista e i sindacati, analoga a quelle che segnarono l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania. Sedi di partito distrutte, dirigenti linciati, giornalisti seviziati e assassinati; attivisti bruciati vivi nella Camera del Lavoro di Odessa; inermi abitanti dell’Ucraina orientale di origine russa massacrati a Mariupol, bombardati col fosforo bianco a Slaviansk, Lugansk, Donetsk.
Un vero e proprio colpo di stato sotto regia USA/NATO, col fine strategico di provocare in Europa una nuova guerra fredda per colpire e isolare la Russia e rafforzare allo stesso tempo l’influenza e la presenza militare degli Stati Uniti in Europa. Di fronte al colpo di stato e all’offensiva contro i russi di Ucraina, il Consiglio supremo della Repubblica autonoma di Crimea – territorio russo passato all’Ucraina in periodo sovietico nel 1954 – vota la secessione da Kiev e la richiesta di riannessione alla Federazione Russa, decisione che viene confermata con il 97% dei voti favorevoli da un referendum popolare. Il 18 marzo 2014 il presidente Putin firma il trattato di adesione della Crimea alla Federazione Russa con lo status di repubblica autonoma. A questo punto la Russia viene accusata dalla NATO e dalla UE di aver annesso illegalmente la Crimea e sottoposta a sanzioni. La Russia risponde con controsanzioni che colpiscono soprattutto le economie della UE, compresa quella italiana.  
Mentre nel Donbass le autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk sostenute dalla Russia resistono all’offensiva di Kiev, che provoca migliaia di morti tra i civili,   la roadmap per la cooperazione tecnico-militare NATO-Ucraina, firmata nel dicembre 2015, integra di fatto le forze armate e l’industria bellica di Kiev in quelle dell’Alleanza a guida USA. 
Nel 2019  l’Ucraina compie un atto senza precedenti: include nella propria Costituzione l’impegno a entrare ufficialmente nella Nato e allo stesso tempo nell’Unione europea. Il 7 febbraio, su proposta del presidente Petro Poroshenko – l’oligarca arricchitosi col saccheggio delle proprietà statali, che si ricandida alla presidenza – il parlamento di Kiev approva (con 334 voti contro 35 e 16 assenti) gli emendamenti in tal senso della Costituzione. Il Preambolo enuncia «il corso irreversibile dell’Ucraina verso l’integrazione euro-atlantica»; gli Articoli 85 e 116 decretano che compito fondamentale del parlamento e del governo è «ottenere la piena appartenza dell’Ucraina alla NATO e alla UE»;  l’Articolo 102 stabilisce che «il presidente dell’Ucraina è il garante del corso strategico dello Stato per ottenere la piena appartenenza alla NATO e UE».
L’inclusione nella Costituzione dell’impegno a entrare ufficialmente nella NATO comporta conseguenze gravissime. Sul piano interno, vincola a tale scelta il futuro dell’Ucraina, escludendo qualsiasi alternativa, e mette di fatto fuorilegge qualsiasi partito o persona vi si opponga. Sul piano internazionale, va tenuto presente che l’Ucraina è già di fatto nella NATO, di cui è paese partner: ad esempio il battaglione Azov, la cui impronta nazista è rappresentata dall’emblema ricalcato da quello delle SS Das Reich, è stato trasformato in reggimento operazioni speciali, dotato di  mezzi corazzati e addestrato da istruttori USA della 173a Divisione aviotrasportata, trasferiti da Vicenza in Ucraina, affiancati da altri della NATO. Poiché la Russia viene accusata di aver annesso illegalmente la Crimea e di condurre azioni militari contro l’Ucraina, se questa entrasse ufficialmente nella NATO, gli altri 30 membri della Alleanza, in base all’Art. 5, dovrebbero «assistere la parte attaccata intraprendendo l’azione giudicata necessaria, compreso l’uso della forza armata». In altre parole, dovrebbero andare in guerra contro la Russia. Su queste pericolose implicazioni della modifica della Costituzione ucraina – dietro cui vi sono certamente le lunghe mani degli strateghi USA/NATO – cala in Europa il silenzio politico e mediatico.

10. L’escalation USA/NATO in Europa

La «nuova missione» della NATO viene ufficializzata dal Summit del settembre 2014 nel Galles, varando il «Readiness Action Plan» il cui scopo ufficiale è quello di «rispondere rapidamente e fermamente alle nuove sfide alla sicurezza», attribuite alla «aggressione militare della Russia contro l’Ucraina» e alla «crescita dell’estremismo e della conflittualità settaria in Medio Oriente e Nord Africa». Il Piano viene definito dal segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, «il più grosso rafforzamento della nostra difesa collettiva dalla fine della guerra fredda».
In appena tre mesi la NATO quadruplica i cacciabombardieri, a duplice capacità convenzionale e nucleare, schierati nella regione baltica (un tempo parte dell’URSS); invia aerei radar AWACS sull’Europa orientale e accresce il numero di navi da guerra nel Mar Baltico, Mar Nero e Mediterraneo; dispiega in Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania forze terrestri statunitensi, britanniche e tedesche; intensifica le esercitazioni congiunte in Polonia e nei paesi baltici, portandole nel corso dell’anno a oltre 200.
Dal 2014 la pressione USA/NATO sulla Russia cresce in progressione geometrica. In quattro anni, dal 2014 al 2018, gli Stati Uniti spendono 10 miliardi di dollari per la «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa» (ERI), il cui scopo ufficiale è «accrescere la nostra capacità di difendere l’Europa contro l’aggressione russa». Quasi la metà  della spesa serve a potenziare il «preposizionamento strategico» USA in Europa, ossia i depositi di armamenti che, collocati in posizione avanzata, permettono «il rapido spiegamento di forze nel teatro bellico». Un’altra grossa quota è destinata ad «accrescere la presenza su base rotatoria di forze statunitensi in tutta Europa». Le restanti quote servono allo sviluppo delle infrastrutture delle basi in Europa per «accrescere la prontezza delle azioni USA», al potenziamento delle esercitazioni militari e dell’addestramento per «accrescere la prontezza e interoperabilità delle forze NATO».
I fondi della ERI – specifica  il Comando Europeo degli Stati Uniti – sono solo una parte di quelli destinatati all’«Operazione Atlantic Resolve, che dimostra la capacità USA di rispondere alle minacce contro gli alleati». Nel quadro di tale operazione, viene trasferita in Polonia dagli USA, nel gennaio 2017, la 3a Brigata corazzata, composta da 3.500 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi e altri mezzi. Essa viene successivamente rimpiazzata da un’altra unità, così che forze corazzate statunitensi siano permanentemente dislocate in territorio polacco. Da qui, loro reparti vengono trasferiti, per addestramento ed esercitazioni, in altri paesi dell’Est, soprattutto Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania e anche Ucraina, ossia vengono continuamente dislocati a ridosso della Russia.
Sempre nel quadro di tale operazione, viene trasferita nella base di Illesheim (Germania) la 10a Brigata aerea da combattimento, con un centinaio di elicotteri da guerra. Sue task force vengono inviate «in posizioni avanzate» in Polonia, Romania e Lettonia. Nelle basi di Ämari (Estonia) e Graf Ignatievo (Bulgaria), vengono dislocati cacciabombardieri USA e NATO, compresi Eurofighter italiani, per il «pattugliamento aereo» del Baltico. L’operazione prevede inoltre «una persistente presenza nel Mar Nero», con la base aerea di Kogalniceanu (Romania) e quella addestrativa di Novo Selo (Bulgaria).
Il generale Curtis Scaparrotti, capo del Comando Europeo degli Stati Uniti e allo stesso tempo Comandante Supremo Alleato in Europa, assicura che «le nostre forze sono pronte e posizionate per contrastare l’aggressione russa». Un contingente USA viene posizionato nella Polonia orientale, nel cosiddetto «Suwalki Gap», un tratto di terreno piatto lungo un centinaio di chilometri che, avverte la NATO, «sarebbe un varco perfetto per i carrarmati russi». Viene così riesumato l’armamentario propagandistico della vecchia guerra fredda: quello dei carrarmati russi pronti a invadere l’Europa. Agitando lo spettro di una inesistente minaccia da Est, in Europa arrivano invece i carrarmati statunitensi.
Il piano è chiaro. Dopo aver provocato col putsch di Piazza Maidan un nuovo confronto con la Russia, Washington (nonostante il cambio di amministrazione dal presidente Obama al presidente Trump) persegue la stessa strategia: trasformare l’Europa in prima linea di una nuova guerra fredda, a vantaggio degli interessi degli Stati Uniti e dei loro rapporti di forza con le maggiori potenze europee.
Allo schieramento sul fianco orientale – comprendente forze corazzate, cacciabombardieri, navi da guerra e unità missilistiche anche nucleari – partecipano le potenze europee della NATO, come dimostra l’invio di truppe francesi e carrarmati britannici in Estonia. Si parla, in questo periodo, di «esercito europeo, ma nell’incontro con i ministri della difesa della UE, nell’aprile 2017 a Malta, il segretario generale della NATO Stoltenberg chiarisce in quali termini: «È stato chiaramente convenuto da parte dell’Unione Europea che suo scopo non è costituire un nuovo esercito europeo o strutture di comando in competizione con quelle della NATO, ma qualcosa che sia complementare a ciò che la NATO fa».

11.  La  portaerei Italia sul fronte di guerra

Le Forze armate statunitensi posseggono in Italia (secondo il rapporto ufficiale del Pentagono Base Structure Report) più di  1.500 edifici, con una superficie complessiva di oltre 1 milione di metri quadri, e hanno in affitto o concessione altri 800  edifici, con una superficie di circa 900 mila m2. Si tratta, in totale, di oltre 2300 edifici con una superficie di circa 2 milioni di metri quadri, sparsi in una cinquantina di siti. Ma questa è solo una parte della presenza militare statunitense in Italia.
Alle basi militari USA si aggiungono quelle della NATO sotto comando USA e quelle italiane a disposizione delle forze USA/NATO. Si stima che, in totale, siano oltre cento. L’intera rete di basi militari in Italia è, direttamente o indirettamente, agli ordini del Pentagono. Essa rientra nell’«area di responsabilità» dello United States European Command (EUCOM), il Comando Europeo degli Stati Uniti, con a capo un generale statunitense che ricopre allo stesso tempo la carica di Comandante Supremo Alleato in Europa. L’«area di responsabilità» dell’EUCOM, uno dei sei «comandi combattenti unificati» con cui gli USA ricoprono il globo, comprende l’intera regione europea e tutta la Russia (compresa la parte asiatica), più alcuni paesi dell’Asia Occidentale e Centrale: Turchia, Israele, Georgia, Armenia e Azerbaigian.
Nella base aerea di Aviano (Pordenone) è schierata la 31st Fighter Wing, la squadriglia USA pronta all’attacco con circa 50 bombe nucleari B61 (numero stimato dalla FAS, la Federazione degli Scienziati Americani, nel periodo antecedente al 2020).
Nella base aerea di Ghedi (Brescia) è schierato il 6° Stormo dell’Aeronautica italiana, pronto all’attacco sotto comando USA con circa 20 bombe nucleari B61 (numero stimato dalla FAS nel periodo antecedente al 2020). Che piloti italiani vengano addestrati all’attacco nucleare – scrive la FAS – lo dimostra la presenza a Ghedi di una delle quattro unità della U.S. Air Force dislocate nelle basi europee (oltre che in Italia, in Germania, Belgio e Olanda)  «dove le armi nucleari USA sono destinate al lancio da parte di aerei del paese ospite». I piloti dei quattro paesi europei e quelli turchi vengono addestrati all’uso delle bombe nucleari nella esercitazione annuale NATO di guerra nucleare. Nel 2013 si è svolta ad Aviano, nel 2014 a Ghedi.
Alle armi nucleari USA dislocate sul territorio italiano, il cui numero effettivo è segreto, si aggiungono quelle a bordo di unità della Sesta Flotta la cui base principale è a Gaeta in Lazio. La Sesta Flotta dipende dal Comando delle Forze Navali USA in Europa, il cui quartier generale è a Napoli-Capodichino.
A Vicenza ha base la 173a Brigata Aviotrasportata dell’Esercito USA, che fornisce forze di rapido intervento al Comando Europeo, al Comando Africa e al Comando Centrale (la cui «area di responsabilità» comprende Medioriente e Asia Centrale). Forze della 173a Brigata, già impiegate in Iraq nel 2003, vengono inviate a rotazione in Afghanistan, in Ucraina e altri paesi dell’Europa Orientale.
Nell’area Pisa/Livorno c’è Camp Darby, il più grande arsenale USA nel mondo fuori della madrepatria. È la base logistica dell’Esercito USA che rifornisce le forze terrestri e aeree statunitensi e alleate in Europa, Medioriente e Africa. Nei suoi 125 bunker sono stoccati proiettili di artiglieria, bombe per aerei e missili in un numero che può essere stimato in oltre 1,5 milioni. Non si può escludere che, tra le armi aeree stoccate a Camp Darby, vi siano state e possano esservi bombe nucleari. Insieme alle munizioni per artiglieria sono stoccati nella base carrarmati e altri veicoli militari in un numero stimato in oltre 2.500, insieme a oltre 11.000 materiali militari di vario tipo. Nella base vi è l’intero equipaggiamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria meccanizzata, che può essere rapidamente inviato in zona di operazioni attraverso l’aeroporto di Pisa (Hub aereo militare  nazionale) e il porto di Livorno (a cui possono attraccare anche unità a propulsione nucleare). Qui fanno scalo mensilmente enormi navi di compagnie private che trasportano armi per conto del Pentagono, collegando i porti statunitensi a quelli mediterranei, mediorientali e asiatici.
In un’area di Camp Darby prima adibita ad attività ricreative, formalmente restituita all’Italia, saranno trasferite nel 2019, dalla caserma Gamerra di Pisa, unità del Comando delle forze speciali dell’Esercito (COMFOSE), così che esse possano meglio addestrarsi con quelle statunitensi per operazioni segrete in zone di guerra.
Dalle inchieste dei giudici Casson e Mastelloni emerge che Camp Darby ha svolto sin dagli anni Sessanta la funzione di base della rete golpista costituita dalla CIA e dal SIFAR nel quadro del piano segreto «Gladio». Camp Darby è una delle basi USA/NATO che – ha scritto Ferdinando Imposimato, Presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione – hanno fornito gli esplosivi per le stragi, da Piazza Fontana a Capaci e Via d’Amelio. Basi in cui «si riunivano terroristi neri, ufficiali della NATO, mafiosi, uomini politici italiani e massoni, alla vigilia di attentati». 
Camp Darby ha a che vedere anche con la tragedia del traghetto Moby Prince, entrato in collisione con la petroliera Agip Abruzzo la sera del 10 aprile 1991, nella rada del porto di Livorno,. Muoiono in 140, dopo aver atteso per ore invano i soccorsi. Quella sera nella rada di Livorno c’è un intenso traffico di navi militari e militarizzate degli Stati uniti impegnate nel trasbordo di armi Usa, parte delle quali viene segretamente  inviata in Somalia, Croazia e altre zone, non esclusi depositi di Gladio in Italia. Quando avviene la collisione, chi dirige l’operazione – sicuramente il comando Usa di Camp Darby – cerca subito di cancellare qualsiasi prova.
A Lago Patria (Napoli) ha sede il Comando della Forza Congiunta Alleata (JFC Naples). Il suo nuovo quartier generale, inaugurato nel 2012, ha una superficie coperta di 85 mila metri quadri, circondata da una vasta area recintata predisposta per future espansioni. Il personale, in aumento, è composto da  oltre 2.500 militari e civili. Il JFC Naples della NATO è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che comanda allo stesso tempo le Forze Navali USA in Europa (da cui dipende la Sesta Flotta) e le Forze Navali USA per l’Africa.
Ogni due anni il JFC Naples assume il comando operativo della «Forza di risposta NATO» (NRF), una forza congiunta «altamente flessibile e capace» composta da 40 mila uomini, che ha il compito di condurre operazioni militari nell’«area di responsabilità del Comandante Supremo Alleato in Europa e al di là di tale area». La punta di lancia della NRF è costituita dalla sua «Task Force Congiunta ad Altissima Prontezza Operativa» che, composta da 5 mila uomini, può essere proiettata in 2/3 giorni nell’area di intervento «prima che inizi la crisi».
Nel quartier generale di Lago Patria è in funzione, dal settembre 2017, l’«Hub di Direzione Strategica NATO per il Sud», un centro di intelligence, ossia di spionaggio, «concentrato sulle regioni meridionali comprendenti Medioriente, Nordafrica e Sahel, Africa Subsahariana ed aree adiacenti».
In Sicilia, la Naval Air Station (NAS) Sigonella, con un personale di circa 7.000 militari e civili, costituisce la maggiore base navale e aerea USA e NATO della regione mediterranea. Oltre a fornire appoggio logistico alla Sesta Flotta, essa costituisce la base di lancio di operazioni militari (in gran parte segrete) principalmente, ma non unicamente, in Medioriente e Africa. La NAS – si legge nella presentazione ufficiale – «ospita aerei USA e NATO di tutti i tipi». Tra questi droni-spia Global Hawk, che da Sigonella effettuano missioni di ricognizione su Medioriente, Africa, Ucraina orientale, Mar Nero ed altre zone. Per attacchi mirati (quasi sempre segreti) decollano da Sigonella droni Predator, armati di missili e bombe a guida laser e satellitare.
La Naval Air Station Sigonella è integrata dalla base italiana di Augusta, che fornisce combustibile e munizionamento alle unità navali USA e NATO, e dal porto di Catania, capace di ospitare fino a nove navi da guerra.  Per le esercitazioni a fuoco, le forze speciali statunitensi dispongono del poligono di Pachino (Siracusa), concesso in uso eclusivo agli Stati Uniti.
L’altra maggiore installazione statunitense in Sicilia è la stazione MUOS di Niscemi (Caltanissetta). Il MUOS (Mobile User Objective System) è un sistema di comunicazioni satellitari militari ad altissima frequenza, composto da quattro satelliti e quattro stazioni terrestri: due in territorio statunitense, in Virginia e nelle Hawaii, una in Australia e una in Sicilia, ciascuna dotata di tre grandi antenne paraboliche di 18 metri di diametro. Tale sistema permette al Pentagono di collegare a un’unica rete di comando e comunicazioni sottomarini e navi da guerra, cacciabombardieri e droni, veicoli militari e reparti terrestri, mentre sono in movimento in qualsiasi parte del mondo si trovino.
In Sardegna vi sono i maggiori poligoni per l’addestramento delle forze militari italiane e NATO: in particolare quelli di Salto di Quirra, Capo Teulada, Capo Frasca e Capo San Lorenzo. Qui viene usato, in esercitazioni a fuoco, circa l’80% delle bombe, delle testate missilistiche e dei proiettili impiegati nelle manovre militari che si svolgono in Italia, con gravi conseguenze per la salute della popolazione.

12. USA E NATO bocciano il Trattato ONU e schierano in Europa nuove armi nucleari

Il 20 settembre 2017 – il giorno stesso in cui alle Nazioni Unite viene aperto alla firma il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari – la NATO lo boccia sonoramente. Il Trattato, votato all’Assemblea Generale da una maggioranza di 122 Stati, impegna gli Stati firmatari a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente, con l’obiettivo della loro totale eliminazione.
Nella dichiarazione del 20 settembre 2017, il Consiglio Nord Atlantico (formato dai rappresentanti dei 29 Stati membri) sostiene che «il Trattato non sarà effettivo, non accrescerà la sicurezza né la pace internazionali, ma rischia di fare l’opposto creando divisioni e divergenze». Chiarisce quindi senza mezzi termini che «non accetteremo nessun argomento contenuto nel Trattato».
Il Consiglio Nord Atlantico esautora così i parlamenti nazionali dei paesi membri, privandoli della sovranità di decidere autonomamente se aderire o no al Trattato ONU sull’abolizione delle armi nucleari.  Annuncia inoltre che «chiameremo i nostri partner e tutti i paesi intenzionati ad appoggiare il Trattato a riflettere seriamente sulle sue implicazioni» (leggi: li ricatteremo perché non lo firmino né lo ratifichino). Il Consiglio Nord Atlantico ribadisce che «scopo fondamentale della capacità nucleare della NATO è preservare la pace e scoraggiare l’aggressione» e che «finché esisteranno armi nucleari, la NATO resterà una alleanza nucleare».
Il Consiglio Nord Atlantico assicura però «il forte impegno della NATO per la piena applicazione del Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP)». In realtà esso è violato proprio dalla NATO. Gli Stati Uniti – violando l’Articolo 1 che proibisce agli Stati militarmente nucleari di trasferire ad altri armi nucleari – hanno schierato bombe nucleari B61 in cinque paesi membri dell’Alleanza: Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia. Questi violano il TNP, che all’Articolo 2 proibisce agli Stati militarmente non nucleari di ricevere armi nucleari, né avere il controllo su tali armi direttamente o indirettamente.
Una nuova bomba nucleare USA, la B61-12, sostituirà dal 2020 la B61 oggi schierata in Italia ed altri paesi europei. La B61-12 ha una testata nucleare con quattro opzioni di potenza selezionabili:  al momento del lancio, viene scelta la potenza dell’esplosione a seconda dell’obiettivo da colpire.  A differenza della B61 sganciata in verticale sull’obiettivo, la B61-12 viene lanciata a distanza e guidata da un sistema satellitare. Ha inoltre la capacità di penetrare nel sottosuolo, anche attraverso cemento armato, esplodendo in profondità per distruggere i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee, così da «decapitare» il paese nemico in un first strike nucleare.
Il programma del Pentagono prevede la costruzione di circa 500 B61-12, con un costo stimato di circa 10 miliardi di dollari (per cui ogni bomba viene a costare il doppio di quanto costerebbe se fosse costruita interamente in oro). La pericolosità di questa nuova arma viene evidenziata perfino dal generale James Cartwright, già capo del Comando Strategico degli Stati Uniti, responsabile delle armi nucleari: «Armi nucleari di minore potenza e più precise aumentano la tentazione di usarle, perfino di usarle per primi invece che per rappresaglia».
Foto satellitari mostrano che sono stati effettuati lavori di ristrutturazione per accrescere la «sicurezza» delle basi di Aviano e Ghedi Torre in vista dell’installazione delle B61-12. Analoghi lavori sono stati effettuati nella base aerea tedesca di Buchel, in altre due basi in Belgio e Olanda, e in quella turca di Incirlic. La B61-12 può essere sganciata da caccia F-16 e Tornado ma, per sfruttare le intere capacità dela bomba, occorrono aerei statunitensi dotati di speciali sistemi digitali: i caccia F-35A, in dotazione anche l’Aeronautica italiana.
Il fatto che, all’esercitazione NATO di guerra nucleare svoltasi a Ghedi nel 2014, prendano parte per la prima volta anche piloti polacchi, indica che le B61-12 verranno schierate anche in Polonia e in altri paesi dell’Est. Caccia NATO a duplice capacità convenzionale e nucleare sono già dislocati nelle repubbliche baltiche a ridosso della Russia.
Contemporaneamente USA e NATO estendono sull’Europa lo «scudo anti-missile». Nel maggio 2016, nella base aerea di Deveselu in Romania, viene inaugurata la Aegis Ashore, la prima installazione terrestre del sistema missilistico Aegis degli Stati Uniti sul territorio europeo. Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ringrazia gli Stati Uniti perché con tale installazione, «la prima del suo genere con base a terra», essi accrescono notevolmente la capacità di «difendere gli alleati europei contro missili balistici dall’esterno dell’area Euro-Atlantica». Annuncia quindi l’inizio dei lavori per realizzare in Polonia, entro il 2018, un’altra Aegis Ashore, analoga a quella entrata in funzione in Romania. Le due installazioni terrestri si aggiungono a quattro navi da guerra dotate di radar Aegis e missili SM-3.  le quali, dislocate dalla U.S. Navy nella base spagnola di Rota, incrociano nel Mediterraneo, Mar Nero e Mar Baltico. La US Navy ha già circa 30 navi di questo tipo.
Sia le navi che le installazioni terrestri Aegis sono dotate di lanciatori verticali Mk 41 della Lockheed Martin, ossia tubi verticali da cui vengono lanciati i missili intercettori. E’ il cosiddetto «scudo», la cui funzione è in realtà offensiva. Se gli USA riuscissero a realizzare un sistema affidabile in grado di intercettare i missili balistici, potrebbero tenere la Russia sotto la minaccia di un first strike nucleare, fidando sulla capacità dello «scudo» di neutralizzare gli effetti della rappresaglia. I lanciatori verticali dello «scudo», oltre ai missili intercettori, possono lanciare anche altri missili. La stessa Lockheed Martin sottolinea che tale sistema è in grado di lanciare «missili per tutte le missioni», compresi «quelli per l’attacco a lungo raggio», come «i missili da crociera Tomahawk». Questi possono essere armati di testata convenzionale (non-nucleare) o di testata nucleare. 
Non si può quindi sapere quali missili vi siano realmente nei lanciatori verticali delle basi in Romania e in Polonia e in quelli a bordo delle navi che incrociano ai limiti delle acque territoriali russe. Non potendo controllare, Mosca dà per scontato che vi siano anche missili da attacco nucleare. La dislocazione di lanciatori verticali Mk 41 a ridosso del territorio russo viola quindi il Trattato sulle forze nucleari intermedie (INF), firmato da USA e URSS nel 1987.

13. USA e NATO affossano il Trattato INF

Gli Stati Uniti annunciano nel febbraio 2019 la «sospensione» del Trattato INF con la Russia e l’intenzione di uscirne definitivamente entro sei mesi. Si ritengono quindi liberi di testare e schierare armi della categoria proibita dal Trattato: missili nucleari a gittata corta e intermedia (tra 500 e 5500 km), con base a terra. Appartenevano a tale categoria i Pershing 2 e i Cruise schierati negli anni Ottanta dagli USA in paesi europei della NATO e gli SS-20 schierati dall’URSS sul proprio territorio, eliminati dal Trattato sulle Forze nucleari intermedie (INF) firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan.
Il Trattato INF viene messo in discussione da Washington quando gli Stati Uniti vedono diminuire il loro vantaggio strategico su Russia e Cina. Nel 2014, l’amministrazione Obama accusa la Russia, senza portare alcuna prova, di aver sperimentato un missile da crociera della categoria proibita dal Trattato e, nel 2015, annuncia che «di fronte alla violazione del Trattato INF da parte della Russia, gli Stati Uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra». Il piano viene  confermato dalla amministrazione Trump: nel 2018 il Congresso autorizza il finanziamento di «un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada». Da parte sua, Mosca nega che il suo missile da crociera violi il Trattato e, a sua volta, accusa Washington di aver installato in Polonia e Romania rampe di lancio di missili intercettori (quelli dello «scudo»), che possono essere usate per lanciare missili da crociera a testata nucleare.
In tale quadro va tenuto presente il fattore geografico: mentre un missile nucleare USA a raggio intermedio, schierato in Europa, può colpire Mosca, un analogo missile schierato dalla Russia sul proprio territorio può colpire le capitali europee, ma non Washington. Rovesciando lo scenario, è come se la Russia schierasse in Messico i suoi missili nucleari a raggio intermedio.
Il piano USA di affossare il Trattato INF è pienamente sostenuto dagli alleati europei della NATO. Il Consiglio Nord Atlantico dichiara, nel dicembre 2018, che «il Trattato INF è in pericolo a causa delle azioni della Russia», accusata di schierare «un sistema missilistico destabilizzante». Lo stesso Consiglio Nord Atlantico dichiara nel febbraio 2019 il suo «pieno appoggio all’azione degli Stati Uniti di sospendere i suoi obblighi rispetto al Trattato INF» e intima alla Russia di «usare i restanti sei mesi per ritornare alla piena osservanza del Trattato». 
All’affossamento del Trattato INF contribuisce anche l’Unione Europea che, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel dicembre 2018, vota contro la risoluzione presentata dalla Russia sulla «Preservazione e osservanza del Trattato INF», respinta con 46 voti contro 43 e 78 astensioni. L‘Unione Europea – di cui 21 dei 27 membri fanno parte della NATO (come ne fa parte la Gran Bretagna in uscita dalla UE) – si uniforma così totalmente alla posizione della NATO, che a sua volta si uniforma a quella degli Stati Uniti. Nella sostanza, quindi, anche l’Unione Europea dà luce verde alla possibile installazione di nuovi missili nucleari USA in Europa, Italia compresa.
Viene ancora una volta ignorato l’avvertimento lanciato dal Presidente Vladimir Putin nel febbraio 2019: «La Russia sarà costretta a creare e dispiegare sistemi d’arma che possono essere usati non solo contro i territori da cui proviene questa minaccia diretta, ma anche contro quei territori dove sono situati i centri decisionali dai quali può provenire l’ordine di usare queste armi contro di noi». In altre parole, se gli Stati Uniti schiereranno in Europa missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia, la Russia schiererà sul proprio territorio missili nucleari puntati sui territori europei in cui sono schierati i missili USA e, allo stesso tempo, contro i territori statunitensi dove si trovano i centri di comando e controllo di questi missili.    

14. L’Impero Americano d’Occidente gioca la carta dellla guerra

Un vasto arco di crescenti tensioni e conflitti si estende dall’Asia Orientale a quella Centrale, dal Medioriente all’Europa, dall’Africa all’America Latina. I «punti caldi» lungo questo arco intercontinentale – Penisola Coreana, Mar Cinese Meridionale, Afghanistan, Siria, Iraq, Iran, Ucraina, Libia, Venezuela e altri – hanno storie e caratteristiche geopolitiche diverse, con specifici fattori socioeconomici interni, ma sono allo stesso tempo collegati a un unico fattore: la strategia con la quale gli Stati Uniti d’America cercano di mantenere la loro posizione di superpotenza dominante.
Gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza economica del mondo, soprattutto grazie ai capitali e ai meccanismi con cui dominano il mercato finanziario globale, alle multinazionali con cui sfruttano risorse umane e materiali di ogni continente, alle alte tecnologie e ai relativi brevetti in loro possesso, al ruolo pervasivo dei loro gruppi multimediali che influenzano le opinioni e i gusti di miliardi di utenti su scala planetaria.
La loro supremazia viene però messa in pericolo dall’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali. Ad essere messo in discussione da Russia, Cina e altri paesi non è solo lo strapotere del petrodollaro (valuta di riserva ricavata dalla vendita di petrolio), ma l’egemonia stessa del dollaro. Il suo valore è determinato non dalla reale capacità economica statunitense, ma dal fatto che esso costituisce quasi i due terzi delle riserve valutarie mondiali e la moneta con cui si stabilisce sui mercati globali il prezzo del petrolio, dell’oro, delle altre materie prime e in genere delle merci.
Ciò permette alla Federal Reserve, la Banca Centrale (che è una banca privata), di stampare migliaia di miliardi di dollari con cui viene finanziato il colossale debito pubblico USA – circa 23 mila miliardi di dollari – attraverso l’acquisto di obbligazioni e altri titoli emessi dal Tesoro. In tale quadro, la decisione presa dal Venezuela nel 2017 di sganciare il prezzo del petrolio dal dollaro e legarlo a quello dello yuan cinese provoca una scossa che fa tremare l’intero palazzo imperiale fondato sul dollaro. Se l’esempio del Venezuela si diffondesse, se il dollaro cessasse di essere la moneta dominante del commercio e delle riserve valutarie internazionali, una immensa quantità di dollari verrebbe immessa sul mercato facendo crollare il valore della moneta statunitense.
Washington guarda con crescente preoccupazione soprattutto alla partnership russo-cinese: l’interscambio tra i due paesi è in forte crescita; aumentano allo stesso tempo gli accordi di cooperazione russo-cinese in campo energetico, agricolo, aeronautico, spaziale e in quello delle infrastrutture. La fornitura di gas russo alla Cina attraverso il nuovo gasdotto Sila Sibiri, a partire dal 2019, apre all’export energetico russo la via ad Est mentre gli USA cercano di bloccargli la via ad Ovest verso l’Europa.
In Medio Oriente, oltre all’intervento militare che blocca il piano USA/NATO di demolire lo Stato siriano, la Russia usa strumenti economici, stipulando nel 2017 accordi con l’Iran per la realizzazione di infratrutture ferroviarie ed energetiche, tra cui un gasdotto tra Iran e India fortemente avversato dagli USA. Washington risponde con una mossa precedentemente concordata con Israele: il presidente Trump attacca violentemente l’Iran, accusandolo di violare «lo spirito» dell’accordo sul nucleare stipulato da Teheran nel 2015 col Gruppo 5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Cina e Russia). Nonostante che la stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica garantisca che l’Iran si sta attenendo all’accordo e che non sta tentando di fabbricare armi nucleari, la questione viene artificiosamente riaperta avviando un pericoloso processo dagli esiti imprevedibili. L’attacco di Washington è diretto non solo contro l’Iran, ma contro la Russia che sta riaffermando la sua presenza in Medioriente. 
«Mosca – scrive il New York Times nell’ottobre 2017 – tenta, attraverso la gigantesca compagnia petrolifera statale Rosneft, di guadagnare influenza in posti dove gli Stati Uniti hanno inciampato. La scommessa più grossa è il Venezuela. In tre anni la Russia e la Rosneft hanno fornito a Caracas assistenza finanziaria per 10 miliardi di dollari, aiutando il Venezuela ad evitare il default. La Russia usa sempre più il petrolio quale strumento, diffonde la sua influenza nel mondo e sfida gli interessi degli Stati Uniti».
Una sfida crescente agli interessi degli Stati Uniti viene contemporaneamente dalla Cina. Primo esportatore mondiale di merci, è salita, come reddito nazionale lordo, al secondo posto mondiale dopo gli Stati Uniti e registra tassi di crescita economica superiori a quelli statunitensi. Il progetto più ambizioso, varato dalla Cina nel 2013 e condiviso dalla Russia, è quello di una nuova Via della Seta: una rete viaria e ferroviaria tra la Cina e l’Europa attraverso l’Asia Centrale e Occidentale e attraverso la Russia, grosso modo lungo il percorso dell’antica Via della Seta. Il progetto, già in fase di realizzazione, prevede, unitamente a quella terrestre, una via marittima attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Per le infrastrutture viarie e ferroviarie, che dovrebbero attraversare e collegare oltre 60 paesi, si prevedono investimenti per oltre 1.000 miliardi di dollari. Il progetto, che non include componenti militari, non è semplicemente economico. Se fosse realizzato secondo l’idea originaria, esso rimodellerebbe l’architettura geopolitica dell’intera Eurasia, creando sulla base di reciproche convenienze una nuova rete di rapporti economici e politici tra gli Stati del continente. 
La spinta a rimodellare l’ordine economico globale non viene solo da grandi soggetti statuali, come la Cina e la Russia, che vogliono un mondo non più unipolare ma multipolare. Essa viene, in molteplici forme e gradi di consapevolezza, da immensi soggetti sociali, miliardi di essere umani che, in ogni continente, subiscono le conseguenze dell’attuale ordine economico globale. Una globalizzazione economica imperniata sulla ricerca del massimo profitto la quale, mentre da un lato abbatte le frontiere perché capitali e produzioni possano circolare liberamente, dall’altro erige altre frontiere, invisibili ma non meno concrete, che escludono la maggioranza della popolazione mondiale dai benefici di quella crescita economica costruita con le risorse umane e materiali di tutto il mondo. Tale sistema crea nel mondo una crescente polarizzazione tra ricchezza e povertà. Oltre l’85% della ricchezza globale (in termini di denaro e proprietà) è concentrato nelle mani dell’8% della popolazione adulta mondiale. Il restante 92% possiede appena il 14% della ricchezza globale. Oltre 3 miliardi e mezzo di persone, che rappresentano quasi i tre quarti della popolazione adulta mondiale, posseggono complessivamente meno del 2,5% della ricchezza globale.
Oltre 2 miliardi di persone in Africa, Asia e America Latina, soprattutto nelle  zone rurali, vivono in povertà o comunque in condizioni di gravi ristrettezze economiche. Tra queste, circa un miliardo è in povertà estrema, ossia in una condizione sociale caratterizzata da denutrizione cronica, situazione  abitativa e igienica disastrosa, alta incidenza di malattie infettive e parasitarie, alta mortalità soprattutto infantile, breve durata media della vita, analfabetismo, mancanza di potere decisionale, dipendenza, marginalizzazione, vulnerabilità e costante insicurezza. Dai villaggi dell’Africa subsahariana alle bidonville asiatiche e latino-americane, i poveri vivono lo stesso dramma, provocato dalle stesse cause di fondo.
Questo è l’ordine economico globale che gli Stati Uniti cercano con tutti i mezzi di conservare e controllare. Lo scopo strategico perseguito da Washington è chiaro: togliere di mezzo qualsiasi Stato o movimento politico/sociale che possa danneggiare i fondamentali interessi politici, economici e militari degli Stati Uniti d’America, mettendo in pericolo la loro supremazia. In tale strategia sono affiancati dalle potenze europee della NATO e da altre, come Israele e Giappone, le quali, pur avendo con gli USA contrasti di interesse, si schierano sotto la leadership statunitense quando si tratta di difendere l’ordine economico e politico dominato dall’Occidente. Non avendo la forza economica per farlo, gli Stati Uniti e i loro alleati giocano sempre più la carta della guerra.
Oltre alle guerre propriamente dette, Washington conduce in misura crescente «guerre non-convenzionali» attraverso «operazioni coperte», ossia segrete. Se ne occupa la Comunità di intelligence, formata da 17 organizzazioni federali. Oltre alla CIA (Agenzia Centrale di Intelligence) vi è la DIA (Agenzia di Intelligence della Difesa), ma ogni settore delle Forze armate – esercito, aeronautica, marina, corpo dei marines – ha il proprio servizio segreto. Come ce l’hanno il Dipartimento di stato e quello della Sicurezza della patria. Tra questi servizi, in aspra competizione l’uno con l’altro per accaparrarsi appoggi politici e fondi federali, svolge un ruolo primario la NSA, l’Agenzia per la sicurezza nazionale, specializzata nelle intercettazioni telefoniche e informatiche, attraverso cui vengono spiati non solo i nemici ma anche gli amici degli Stati Uniti, come conferma il «datagate» suscitato dalle rivelazioni dell’ex contrattista Edward Snowden.
Le azioni sul campo vengono effettuate dallo USSOCOM, il Comando delle forze speciali, che dispone di decine di migliaia di commandos dei quattro settori delle forze armate. Come emerge da un’inchiesta del Washington Post, le forze per le operazioni speciali sono dispiegate in 75 paesi. Lo USSOCOM impiega allo stesso tempo compagnie militari private. Nell’area del Comando Centrale USA, comprendente anche Iraq e Afghanistan, i contractor del Pentagono sono oltre 150 mila. Si aggiungono quelli assunti da altri dipartimenti e dagli eserciti alleati, il cui numero è sconosciuto, ma sicuramente alto. Tutti appartengono all’esercito ombra privato, che affianca quello ufficiale.
A questo si aggiunge l’«esercito umanitario» formato da tutte quelle «organizzazioni non-governative» che, dotate di ingenti mezzi, vengono usate dalla CIA e dal Dipartimento di Stato per azioni di destabilizzazione interna in nome della «difesa dei diritti dei cittadini». Nello stesso quadro rientra l’azione del gruppo Bilderberg – che il magistrato Ferdinando Imposimato denuncia come «uno dei responsabili della strategia della tensione e delle stragi» in Italia – e quella della Open Society dell’«investitore e filantropo George Soros», artefice delle «rivoluzioni colorate».
Gli Stati Uniti –  che dal 1945 hanno provocato con le loro guerre e i loro colpi di stato 20-30 milioni di morti (più centinaia di milioni causati dagli effetti indiretti di tali azioni) – sono disposti a tutto pur di conservare la superiorità militare su cui basano il loro impero, che si sta sgretolando con l’emergere di un mondo multipolare. Nel quadro di tale strategia, le decisioni politiche vengono prese anzitutto nello «Stato profondo», centro sotterraneo del potere reale detenuto dalle oligarchie economiche, finanziarie e militari.

15. Il sistema bellico planetario USA/NATO

Nella «geografia» del Pentagono, il mondo viene diviso in «aree di responsabilità», ciascuna affidata a uno dei sei Comandi Combattenti Unificati degli Stati Uniti: il Comando Nord copre il Nordamerica; il Comando Sud, il Centro e Sud America; il Comando Europeo, la regione comprendente l’Europa e l’intera Russia; il Comando Africa, il continente africano (salvo l’Egitto che rientra nell’area del Comando Centrale); il Comando Centrale, il Medioriente e l’Asia Centrale; il Comando Pacifico, la regione Asia/Pacifico.
Ciascuno dei Comandi Combattenti Unificati è composto dai comandi delle diverse componenti delle Forze armate USA in quell’area. Ad esempio, il Comando Europeo degli Stati Uniti è formato da: Esercito USA in Europa, Forze Aeree USA in Europa, Forze Navali USA in Europa, Forze Marines USA in Europa, Comando delle Operazioni Speciali USA in Europa. Il comando di ciascuna forza è articolato, a sua volta, in una serie di sottomandi e unità.  Ad esempio, l’Esercito USA in Europa ne ha 22.
Ai sei comandi geografici se ne aggiungono tre operativi su scala globale: il Comando Strategico, responsabile delle forze nucleari terrestri, aeree e navali, delle operazioni militari nello spazio e cyberspazio, dell’attacco globale, della guerra elettronica e della difesa missilistica; il Comando per le Operazioni Speciali, con un comando specifico in ciascuna delle sei aree più uno in Corea, responsabile della guerra non-convenzionale, delle operazioni contro-insurrezione, delle operazioni psicologiche e di qualsiasi altra missione ordinata dal Presidente o dal Segretario alla Difesa; il Comando per il Trasporto, responsabile della mobilità di soldati e armamenti via terra, aria e mare a livello mondiale.
Gli Stati Uniti d’America sono l’unico paese ad avere una presenza militare su scala globale, in ogni continente e regione del mondo. Il Pentagono è direttamente proprietario di oltre 4.800 basi e altre installazioni militari, sia negli USA che all’estero, comprendenti oltre 560.000 edifici e strutture (tipo ferrovie, oleodotti e piste aeroportuali). Gli Stati Uniti hanno, secondo i dati ufficiali del Pentagono, circa 800 basi e altre installazioni militari in oltre 70 paesi, soprattutto attorno alla Russia e alla Cina, più molte altre in uso o segrete. Tali basi servono a una continua rotazione di forze, che vengono rapidamente aumentate con quelle trasferite dalle basi negli Stati Uniti per concentrarle in determinati teatri bellici. I paesi in cui sono dispiegate truppe statunitensi, compresi quelli dove gli USA non hanno basi militari, sono oltre 170. Come termine di paragone, la Russia ha solo una decina di basi militari all’estero, nelle ex repubbliche sovietiche e in Siria; la Cina ne ha una a Gibuti, dove fanno scalo le sue navi militari e civili.
Sulla scia degli Stati Uniti si muove la NATO, l’alleanza sotto comando USA che ormai non ha più confini. In Europa – dopo essersi estesa nell’area dell’ex Patto di Varsavia, dell’ex URSS e della ex Jugoslavia – sta di fatto incorporando l’Ucraina. In Asia Centrale la NATO sta incorporando la Georgia che, già integrata nelle sue operazioni, è candidata a divenire membro dell’Alleanza a tutti gli effetti. La NATO continua inoltre ad «approfondire la cooperazione» con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, per contrastare l’Unione Economica Eurasiatica (comprendente Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan). Resta inoltre impegnata in Afghanistan. paese di grande importanza geostrategica nei confronti di Russia e Cina.
In Asia Occidentale, la NATO prosegue l’operazione militare coperta contro la Siria e ne prepara altre (l’Iran è sempre nel mirino). Allo stesso tempo sta rafforzando la partnership (collaudata nella guerra alla Libia) con quattro monarchie del Golfo – Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar – e la cooperazione militare con l’Arabia Saudita che sta facendo strage nello Yemen con bombe a grappolo fornite dagli USA. In Asia Orientale, la NATO ha concluso col Giappone un accordo strategico che «allarga e approfondisce la lunga partnership», cui si unisce un accordo analogo con l’Australia, in funzione anticinese e antirussa. Con la stessa finalità i maggiori paesi NATO (tra cui l’Italia) partecipano ogni due anni, nel Pacifico, a quella che il comando della Flotta Usa definisce «la maggiore esercitazione marittima del mondo».
In Africa, dopo aver demolito la Libia, la NATO sta potenziando l’assistenza militare all’Unione africana, cui fornisce anche «pianificazione e trasporto aeronavale», nel quadro strategico del Comando Africa degli Stati Uniti. In America Latina, la NATO ha stipulato un «Accordo sulla sicurezza» con la Colombia che, già impegnata in programmi militari dell’Alleanza (tra cui la formazione di forze speciali), è divenuta «il primo partner della NATO in America Latina». La NATO ha dunque le mani in pasta nel piano sovversivo contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela.  

16. Per uscire dal sistema di guerra uscire dalla NATO

Mentre l’accelerazione dei conflitti in atto fa aumentare il rischio di una grande guerra che, con l’uso delle armi nucleari e altre armi di distruzione di massa, metterebbe a repentaglio l’esistenza stessa dell’Umanità e del Pianeta Terra, è di vitale importanza  moltiplicare gli sforzi per uscire dal sistema di guerra. Ciò pone la questione dell’appartenza dell’Italia alla NATO.
C’è chi dice che si può stare nella NATO conservando la propria autonomia di scelta, ossia avendo la possibilità di decidere di volta in volta nel parlamento nazionale se partecipare o no a una determinata iniziativa dell’Alleanza Atlantica. Illusione o peggio. Nel Consiglio Nord-Atlantico, stabiliscono le norme NATO, «non vi è votazione né decisione a maggioranza», ma «le decisioni vengono prese all’unanimità e di comune accordo», ossia d’accordo con gli Stati Uniti d’America cui spettano per diritto la carica di Comandante Supremo Alleato in Europa e gli altri comandi chiave, compreso quello del Gruppo di pianificazione nucleare.
Nel grande spettacolo mediatico della politica, prestigiatori ed equilibristi lanciano appelli per un mondo senza armi nucleari, ossia per qualcosa che attualmente è impossibile, ma non fanno niente per realizzare ciò che invece oggi sarebbe possibile: una decisa battaglia politica per liberare l’Italia dalle armi nucleari, che non servono alla nostra sicurezza ma ci espongono a rischi crescenti.  È l’unico modo attraverso cui, in Italia, si può realmente contribuire a disinnescare l’escalation che porta alla guerra nucleare, compiendo un reale passo avanti verso la totale eliminazione delle armi nucleari.
Per fare questo, occorre battersi in campo aperto perché l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione che ha ratificato, imponendo agli Stati Uniti di rimuovere immediatamente le loro armi nucleari dal nostro territorio nazionale, e contemporeamente perché l’Italia, liberandosene, aderisca al Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari.
I principi della nostra Costituzione e i reali interessi nazionali rendono allo stesso tempo indispensabile la rimozione dal nostro territorio nazionale non solo delle armi nucleari, ma delle basi USA e di quelle NATO sotto comando USA. In altre parole, si deve infrangere il Grande Tabù che domina il mondo politico e istituzionale, indicando chiaramente l’obiettivo da raggiungere: l’uscita dell’Italia dalla NATO e della NATO dall’Italia, per contribuire allo scioglimento dell’Alleanza Atlantica e di qualsiasi altra alleanza militare. Obiettivo considerato folle da chi vede l’Alleanza Atlantica come qualcosa di sacro e intoccabile; considerato pericoloso da chi sa che, mettendosi contro la NATO, mette a rischio la propria carriera politica; considerato impossibile da chi pensa che non possa esistere un’Italia sovrana e neutrale.
Gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di tale obiettivo sono giganteschi. Il Potere dominante basa la sua forza non solo su strumenti politici, economici e militari, ma sul controllo delle menti, reso possibile da un apparato mediatico pervasivo che, soprattutto attraverso la televisione, induce a credere che esista solo ciò che si vede e non esista ciò che non si vede. Il controllo delle menti attraverso l’apparato mediatico dominante permette, da un lato, di tranquillizzare l’opinione pubblica nascondendo le minacce reali, dall’altro di allarmarla facendo apparire di volta in volta ologrammi di pericolosi nemici, così da giustificare politiche di riarmo, operazioni militari e guerre, giustificando allo stesso tempo una spesa militare che in Italia ammonta a circa 70 milioni di euro al giorno e, secondo gli impegni presi nella NATO, dovrà salire a circa 100 milioni di euro al giorno. E, sempre in funzione del controllo delle menti, si crea lo spettacolo di chi, dopo aver sostenuto le guerre che demolendo interi Stati (ultimo quello libico) hanno provocato drammatici esodi di massa, oggi sono in prima fila ad accogliere a braccia aperte le vittime di queste stesse guerre.
La stragrande maggioranza non sa quindi niente o quasi niente dei meccanismi che determinano la sempre più rapida escalation bellica, rendendo sempre più reale lo scenario della terza (e ultima) guerra mondiale: quella termonucleare. Se ne parla in cerchie ristrette di «addetti ai lavori», in «sale grige» (con riferimento al colore dei capelli) dalle quali sono largamente assenti i giovani. Si tratta di uscire dal chiuso, trovando modi e linguaggi per far capire alla gente che il tempo stringe, che occorre assolutamente muoversi finché siamo in tempo. Il che fare è nelle mani di ciascuno di noi.
Di fronte al pericolo incombente, dobbiamo dimostrare che esiste ancora un’Italia che si ricorda, non solo a parole, della propria Costituzione; un’Italia per la quale la parola «sovranità» non è solo un termine ad uso spicciolo politico; un’Italia che rifiuta di restare ingabbiata in un’alleanza che sotto comando straniero ci danneggia e ci porta alla catastrofe; un’Italia capace di uscire dall’antistorica visione di un Occidente arroccato a difesa della propria supremazia; un’Italia capace di svolgere un ruolo attivo nella costruzione di un mondo multipolare in cui si realizzino le aspirazioni dei popoli alla libertà e alla giustizia sociale sulla base della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. 

GRUPPO DI LAVORO
Francesco Cappello, Giulietto Chiesa, Franco Dinelli, Manlio Dinucci, Berenice Galli, Germana Leoni von Dohnanyi, Jeff Hoffman, Giuseppe Padovano, Marie-Ange Patrizio, Jean Toschi M. Visconti, Luisa Vasconcelos, Fernando Zolli

                             
REFERIMENTE

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È arrivata la buferaPiemme, 2015
Что, вместо катастрофа, Mosca 2016 Putinfobia,  Piemme 2016Руссофобия 2.0.  Eksmo, Moscow, 2017 Rusofobie 2.0.  Editions du Cercle, ParisRusofobija,  Albatros, Belgrado, 2016
Caos Globale,  Revoluzione Ed., 2017Глобалний Каос,  Moscow 2018
  • Manlio Dinucci
Coautore con Daniel Bovet e prefazione di Ernesto Balducci, Tempesta del deserto / Le armi del Nord, il dramma del Sud, Edizioni Cultura della Pace, 1991
Hyperwar, Edizioni Cultura della Pace, 1991
Coautore con U.Allegretti e D.Gallo, La strategia dell’impero / Dalle direttive del Pentagono al Nuovo Modello di Difesa, Edizioni Cultura della Pace, 1992
L’Arte della guerra / Annali della strategia USA/NATO (1990-2016), Zambon Editore, 2016
Diario di guerra, Asterios Editore, 2018
Guerra nucleare - Il giorno prima / Da Hiroshima a oggi: chi e come ci porta alla catastrofe,  Zambon Editore, 2017
  • Germana Leoni von Dohnanyi, Lo Stato Profondo, Imprimatur, 2017
  • Francesco Cappello, Ricchezza fittizia povertà artificiosa, Edizioni ETS, 2018










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